Alla fine degli anni Ottanta, nelle fabbriche italiane si inizia a registrare una forma di sordo rancore quale reazione alla frustrazione di un ruolo sociale perduto ed al risentimento nei confronti di quel sistema politico considerato responsabile del disfacimento sociale entro cui si era consumata la perdita di ruolo. Il ceto operaio del Nord, motore dell’economia italiana per un trentennio, smarrisce parte della propria centralità: Cipputi non si sente più protagonista dell’evoluzione socio-politica e sa di non esserlo.
Avveniva così anche in Italia il tramonto della fabbrica fordista come luogo-chiave nella costruzione della società: se fino allora ci si aggregava per uguaglianza, ora si era chiamati semmai ad aggregarsi per differenza. Nasceva la figura sociale (come la definì in quegli anni Pietro Barcellona) dell’ individuo proprietario, di un microsoggetto caratterizzato da un desiderio quasi illimitato di possesso e chiamato ad un compito quasi aporetico: dar vita ad una comunità fatta di singoli in tanto definiti proprio in quanto proprietari. Una comunità fatta di singolarità monadiche, sganciando così i ruoli sociali da un ethos millenario che fin lì aveva inquadrato le individualità in quanto parti di un soggetto che li eccedeva e li comprendeva: la fabbrica, la cellula, il partito, la chiesa, lo Stato.
L’unica realtà sovraindividuale superstite era la famiglia, per quanto ridisegnata.
La famiglia in quanto luogo fisico, emotivo, sociale, economico con un preciso significato immediato e strategico. Il nucleo familiare costituisce la radice del localismo, fenomeno che al Nord assume connotati economici di prima rilevanza, ed al Sud anche, sia pure in misura ed in termini assolutamente diversi. Se al Nord il capofamiglia metteva al lavoro la propria famiglia dando vita a quel capitalismo molecolare che ha fatto la fortuna economica specie del Nord-est d’Italia, al Sud il ricorso alla rete corta delle alleanze familiari ha continuato ad avere i connotati arcaici dell’economia domestica sommersa, quando non direttamente afferente al reseau mafioso-malavitoso.
Nasceva al Nord un capitalismo fatto di piccole e medie imprese in cui lavoravano mamma, papà, figli e cugini, in un processo di esaltazione dell’autosfruttamento (così lo definisce Bonomi) tipico del codice dell’individualismo proprietario. La moltitudine di piccole e medie imprese veniva a costituire quella “città infinita” dell’area pedemontana, estesa senza soluzione di continuità da Milano a Treviso.
Lo sguardo con il quale Bonomi affronta l’analisi di questa trasformazione nel laboratorio del Nord vuole evidenziarne l’impatto antropologico su alcune figure emblematiche di questa apocalisse culturale: la “paura” dell’operaio della fabbrica fordista di matrice metropolitana, lo “stress” del piccolo imprenditore della pedemontana lombardo-veneta schiacciato dall’apertura dell’economia internazionale, lo “spaesamento” dei componenti delle comunità alpine e pre-alpine di fronte allo sgretolamento dei tradizionali dispositivi di coesione sociale.
L’effetto più cospicuo dello spaesamento, imputabile al crollo delle grandi appartenenze ed al confronto con la modernità globalizzata, comportava per il soggetto tonalità emotive connotate dall’incertezza e nel segno del ritorno all’abituale: “il processo di riterritorializzazione può essere sintetizzato con il ‘ritorno dell’abituale’. La modernità produceva un irreversibile spaesamento e il ritorno ai luoghi noti dell’abitare e del produrre. Ma questo ritorno nelle società locali generava inevitabilmente un disincanto, derivato dal non ritrovare più quelle condizioni locali da cui pure si era partiti. Ecco spiegati i sentimenti di frustrazione e rabbia che nelle società locali trovavano la loro base territoriale”[1].
Questi sentimenti, e le spinte reattive che la politica ha interpretato tra gli anni Ottanta ed i Novanta, non sono stati beninteso un fenomeno solo italiano.

Jorg Haider
Basti ricordare quel che è accaduto in contemporanea nella cintura alpina, in Austria con Jörg Haider, in Svizzera con Cristopher Blocher ed in Baviera, con Edmund Stoiber. Nelle valli alpine, l’accresciuto sentimento di marginalità ha promosso prima e più virulentemente che nelle città una serie di tentativi politici di riportare ad unità quel mondo dell’Heimat che si stava sgretolando sotto la pressione della competizione economica globale.
Sullo sfondo dei comportamenti compariva anche un sordo rancore che coniugava arcaismi ed etnoecologia, le ampolle ed il Dio-Po ed il rifiuto dell’alta velocità alle porte di Torino, in Val di Susa.
[1] Aldo Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del nord, Feltrinelli, Milano 2008.
Tag: Lega, localismo, rancore, spaesamento
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