I sentimenti timotici sono forti e rilevanti, ma nell’ambito delle riflessioni e delle analisi novecentesche sulla galassia sentimentale sembra sia stata riservata loro scarsa considerazione; l’attenzione si sarebbe concentrata di più sulla disposizione erotica dell’individuo, sui suoi rapporti verso gli altri e con il mondo. La mia ipotesi è che nel costituirsi della felicità individuale rientrino invece anche fattori timotici, e che il loro essere sottostimati dalla nostra cultura abbia un ruolo ai fini della sua generalizzata assenza, nella diffusa infelicità personale.
In altre parole, per esser felici sembra necessario un Sé fondato non soltanto sulle capacità erotiche del soggetto (i sentimenti-verso, come vien detto; la capacità di amare innanzitutto, e poi quella di provare compassione e pietà per gli altri, l’empatia, così rilevante per un settore degli studi cognitivisti d’oggi, ed infine il desiderio di possesso), ma è necessario probabilmente che la personalità individuale appagata poggi anche su di un sentimento di sé fatto di autostima, di orgoglio personale, di desiderio legittimo di esser riconosciuti dagli altri. Appunto, su quei sentimenti timotici oggi tendenzialmente silenziati nella cultura “progressista” o democratica che tende ad assimilarli tout court al narcisismo.
Dagli anni Settanta in poi, volendo indicare una data, ci si è gradualmente distaccati dall’antico primato della timotica, ancora attuale al tempo degli empiti rivoluzionari e socialisti, a vantaggio di un’erotizzazione senza confini, di una ri-privatizzazione delle illusioni. Se il passato timotico aveva visto il predominio assiologico dei valori combattenti, oggi – nella sfera avanzata del consumo – amare, desiderare e godere conchiudono l’orizzonte e diventano il primo dovere. Cadono i precetti di astinenza e – per esprimersi con Sloterdijk – s’impongono nuovi comandamenti morali fondati sul desiderio ed il godere pubblicamente e sulla responsabilizzazione dell’individuo nella competizione per il godimento.
Ma nonostante il primato dell’erotico, i sentimenti timotici permangono. Ed a volte si esasperano, se non si riesce ad essere felici attraverso l’erotizzazione del proprio orizzonte di attesa. Vivendo in una banlieu di Marsiglia od in una bidonville di Lagos o di Messico, al centro di un universo multicentrico che ha smarrito la periferia, surclassato dalle proposte del lusso e dell’erotica, come si può sfogare la frustrazione per non avere ciò che i media dicono ci spetti? Il latore d’ira contemporaneo non ha scenari che lo orientino, non ha porte Scee o mura sotto le quali far scempio di nemici – anzi, a ben vedere, non sa neppure chi sono i suoi nemici. E non ha neppure narrazioni convincenti che gli assegnino un posto conveniente negli avvenimenti mondiali di cui, comunque, è chiamato a far parte, da ogni angolo: dalla televisione, dalla cartellonistica, da Internet, se vi ha accesso.
Ed è allora che il drive timotico viene surrogato perseguendo illusoriamente la felicità attraverso il ritorno alle invenzioni etniche e sub culturali della storia. E se queste non sono disponibili, subentrano al loro posto delle costruzioni locali noi-loro. Dallo spaesamento, la fuga in se stessi. E per trovarvi conforto, l’espulsione dalla propria immagine del sé di ogni aspetto perturbante. Lo straniero, il diverso, il barbaro non è che il fantasma della singolarità diversa da sé che non riusciamo ad accettare senza provare paura.
Sradicamento e felicità
Non serve pensare queste soggettività irrelate per forza a Mumbay o a Manila. E’ sufficiente abitare in val Chiavenna, o in un qualunque paesino di quella città infinita che va da Milano a Treviso. Ovunque, la dissoluzione dell’identità sociale è caratterizzata dall’instaurarsi di relazioni “più corte”, circoscritte ad un orizzonte spazio-temporale di più facile controllo. Si ricorre al già noto, alle differenze si sostituiscono criteri di uniformità spacciati per differenze.
Si fa di tutto, pur di sentirsi meno infelici, meno precari, meno dispersi, meno assediati dall’altro e dal diverso. Ci si riesce meglio se non si è soli; una ricerca inglese condotta di recente su quasi cinquemila soggetti seguiti per 20 anni attesta che la felicità è un fenomeno collettivo, come la salute. Nel senso che la felicità individuale è fortemente correlata alla felicità degli altri che ci attorniano[1].
I protagonisti atomistici di questa communitas che tale non è, una cosa importante la condividono eccome: ed è la dinamica del desiderio nei confronti delle cose, innescata da quelle che Bonomi chiama “le piccole fredde passioni” tipiche dell’attuale fase storica e che appartengono in pieno alla declinazione erotica del soggetto. Insomma, ci si deve accontentare dei beni di qua, se quelli di là non ci vengono più presentati con la stessa incisività e persuasione di una volta dalla maggiore e, in apparenza, affidabile banchiere della storia, la Chiesa, amministratore delegato dell’eternità per conto di Dio.
Oggi la fede cristiana è in crisi (non così quella musulmana, invero, almeno dal punto di vista numerico), mentre quella nel capitalismo – nonostante le profonde ferite inferte all’ambiente e le turbolenze finanziarie dei mercati – gode di una salute migliore e la felicità viene sempre più ricercata attraverso il possesso di beni materiali. Come dimostra la fenomenologia della ricchezza del Nord Italia illustrata appunto da Aldo Bonomi, vi è un vasto mercato di merci concepite proprio per soddisfare i desideri erotico-edonistici delle persone.
Ma che ne è del mercato dei desideri timotici? C’è la stessa offerta? Dopo il fallimento delle due banche universali dell’ira alle quali Sloterdijk si riferisce usualmente – il Paradiso dei Santi e quello dei Rivoluzionari – il mercato delle passioni timotiche ha subito una contrazione avvilente che ha fatto sì che, in capo ad una ventina di anni, l’offerta di Befriedigung dei desideri timotici – di soddisfazione nel senso hegeliano di appagamento, base e fondamento di ogni possibile felicità terrena, reale e non illusoria – sia stata quasi monopolizzata dalle organizzazioni politiche della Destra.
La sottovalutazione dell’universo timotico, in politica, è propria principalmente dei progressisti democratici, che hanno probabilmente scontato più della controparte quella fiducia eccessiva – “illuministica” – nell’evidenza della ragione, prendendo le distanze sia dalle passioni timotiche “al positivo” (onore, amor proprio, orgoglio, stima, ecc.), sia da quelle troppo facilmente connotabili “al negativo” – come l’ira, la paura, la rabbia, il rancore, eccetera.
Per essere disponibili alla felicità, sosteneva Marx, è meglio essere atei ed essere attivi, avere un lavoro. Se non ci si illude su di un domani ultraterreno, si dovrebbe essere più disponibili ad apprezzare il mondo ed a cercarvi una felicità non demandabile ad un futuro escatologico. Il lavoro – se non alienato, per dirla con Marx – porta a socializzare e quindi ad incontrare – con maggiori probabilità rispetto ad una pratica di vita solipsistica – una felicità che sembrerebbe essere un fenomeno collettivo, oltre che individuale. Il lavoro inoltre è un potente collettore timotico, in grado di rafforzare l’orgoglio, l’amor proprio, l’autostima.
Sarebbe quindi il caso innanzitutto che le forze politiche democratiche tornassero a valorizzare il lavoro e le attività nelle quali ci si produce, a difenderle e promuoverle. E che inoltre non tralasciassero quelle passioni non erotiche che pure contribuiscono alla costituzione del sé e ad un processo d’identificazione in grado di soddisfare la persona senza raggelarla nel narcisismo e nella pulsione di morte. Non voglio certo riproporre una versione ammodernata del Bushidō giapponese, del codice d’onore samurai. Ma dove sta scritto che onore, orgoglio, coraggio, autostima debbano restare vuote parole d’ordine strillate dalle curve degli stadi e nei cortei della destra ultrà?
[1] Dynamic spread of happiness in a large social network: longitudinal analysis over 20 years in the Framingham Heart Study, BMJ 2008;337:a2338.
Tag: felicità, Marx, narcisismo
27 gennaio 2009 alle 10:10 PM |
Ma dove sta scritto che l’uomo aspira alla felicità?
Solo gli inglesi lo fanno, avrebbe scritto Nietzsche, come ricorda il nostro Sloterdijk. (1) Riguardo alla speranza, l’ironia è piuttosto maligna, velenosa, <>, dichiara in un’intervista il critico letterario George Steiner, che considera come nella ‘democrazia americana’, in una terra votata a che le cose lunedì prossimo saranno migliori di quanto siano questo lunedì, votata al sogno che sempre più persone saranno felici rispetto a quelle del passato, l’ironia è scarsa: anzi, l’ironia è lesa maestà. (2)
Nel continente europeo, quell’ironia prospera, velenosa riguardo alla speranza. Come si può essere liberi di scegliere il destino che ci determina, <> (3)? Bando all’interiorità e <>, con il <>. (4) Le passioni timotiche possono alimentare quella possibilità di decisione, di assumersi la responsabilità di un fondamento nella sua infondatezza, purché condiviso, comune, di chi compie il proprio incarico (munus) insieme con (cum) altri (5)?
(1) “Ira e tempo” di P. Sloterdijk, Meltemi editore, Roma, pag. 47.
(2) http://it.youtube.com/watch?v=7bEeAiVnGbM (dal minuto 0:17:50 al 0:18:30).
(3) “Lo psicanalista e la città. L’inconscio e il discorso del capitalista”, di M. Recalcati, manifesto libri, Roma, pag. 91.
(4) Ivi, pag. 60.
(5) Voce ‘Comune’ in “Dizionario etimologico della lingua italiana” di M. Cortellazzo e P. Zolli, Zanichelli, Bologna, 1979, vol.1/A-C, pag. 263.
4 marzo 2009 alle 10:15 am |
Il caso Englaro e la post-storia (Francesco Santosuosso)
“Strani giorni, viviamo strani giorni”, canta Franco Battiato in una celebre canzone e in effetti, nelle ultime settimane, davvero la società civile davanti al caso Englaro si è trovata di fronte a quel “vuoto dell’essere” heideggeriano, mettendo quindi sulla piazza un surplus emotivo con cui la stessa collettività si sta ubriacando.
Utilizzando le categorie di Sloterdijk, Eluana Englaro potrebbe rappresentare se non direttamente una banca dell’ira, almeno un tesoriere di quest’ultima; i diciassette anni di stato vegetativo sono a mio avviso proprio quel tempo necessario per accumulare ira e scatenare la rivoluzione, infatti per Lenin ”chi rinuncia all’omicidio del principe un giorno otterrà la sua salma”.
La morte della Englaro ha creato un precedente da cui ormai è impossibile tornare indietro: l’intrusione del mondo politico ha inoltre evidenziato una precaria e inadeguata conoscenza del terreno in cui ci si muove.
I provvedimenti del governo hanno le radici in sentieri erotici già percorsi, l’opposizione invece ha tentato di muoversi su binari timotici senza però offrire soluzione pragmatiche o pseudo tali come quelle offerte dal premier; a fermarsi non è stato solo il cuore e il respiro della Englaro, ma anche la storia della società civile.
Ci ritroviamo ora nella post-storia ed è inutile cercare risposte e soluzioni se non in questo terreno; la rivoluzione potrebbe essere già avvenuta e potrebbe essere rappresentata dal fatto che in uno stato solo formalmente laico come l’Italia, dove la morale cristiana a lungo ha imposto dogmi e silenzio circa questioni etiche, ora si inizia a discutere ad esempio del testamento biologico, nel tentativo di restituire in tal modo il libero arbitrio all’individuo almeno sulle scelte ultime.
Francesco Santosuosso
16 marzo 2009 alle 12:44 am |
Trovo questo corso davvero molto interessante. Utilissimo per le mie ricerche, dato che mi occupo di filosofia dell’esposizione