Indignazione

Ha senso indignarsi, nella poststoria? Non siamo forse nella noia infinita del transpolitico, come sostiene Baudrillard, in quel tempo che conosce una sola passione, il lavoro del lutto e la gestione dei residui?
Indignazione è il titolo del nuovo romanzo di Philip Roth, uscito in inglese il 16 settembre. Indignazione che infiamma ormai da tempo la coscienza politica del più grande narratore americano.

Philip Roth

Philip Roth

Brucia d’indignazione anche il giovanissimo protagonista del romanzo, a causa delle autorità che tendono continuamente a non riconoscere la sua libertà di pensiero. E d’indignazione, infine, muore il giovane Marcus su di una collina coreana, ucciso da una raffica dei cinesi all’attacco al grido proprio di “Indignazione”, come nel loro inno nazionale che ricorda gli affronti subiti dai giapponesi (“Arise, ye who refuse to be bondslaves! / . . . Indignation fills the hearts of all of our countrymen, / Arise! Arise! Arise!”.
Tante indignazioni quindi, come tante sono le cause della rabbia e dell’ira. Oggi, l’indignazione fa pensare soprattutto a signori di mezz’età, con bastone e cappello, indignati per la decadenza morale dei giovani: un sentimento piuttosto stantio e improduttivo, che cela il distacco e l’impotenza.  
Le centinaia di migliaia di persone in piazza in queste settimane testimoniano della possibilità, ancora, d’indignarsi e di agire. Anzi, vorrei che la capacità di sentirsi indignati, tutti insieme, non venisse meno e continuasse a coniugarsi all’azione politica: come se nella poststoria non venisse meno il desiderio di riconoscimento, il bisogno di essere riconosciuti per quello che si è e per quello che si vale e di riconoscere a nostra volta i nostri simili, coi loro sentimenti e con le loro ragioni.
L’ira va capitalizzata. Non bruciata in falò effimeri. Se non ci si fida degli sportelli che la politica mette a disposizione, che se ne creino allora creare una nuova banca dell’ira nella quale riporla. L’importante è accumularla per spenderla al momento giusto: politica significa anche saper attendere. Per non farsi prendere da quell’estremismo della stanchezza – così lo chiama Sloterdijk – che fa sì che l’ira si disperda in una misocosmia generalizzata, in un’ostilità contro il mondo in quanto tale e in quanto intatto, e solo perché intatto, mentre ci si sente rotti e dispersi. E’ possibile andare al di là del risentimento. E’ lecito e possibile non dare per persa la battaglia con la demoralizzazione. E’ possibile non cessare di guardarsi con gli occhi degli altri.

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2 Risposte to “Indignazione”

  1. Gabriele de Seta Says:

    Interessante sarebbe sapere le fonti e le traduzioni da cui Roth ha tratto la l’inno cinese in questione, che nella forma attule adottata nel 1949 recita, nel passo incriminato:
    “Per il popolo cinese giunge il momento più pericoloso,
    Tutto il popolo è costretto a levare l’ultimo grido: Alzatevi! Alzatevi! Alzatevi!”

    Di “Indignazione” non v’è traccia, così come non c’è nel titolo – “La Marcia dei Volontari”. Tuttalpiù, quell’ultimo grido che il popolo è costretto a lanciare può ben essere un grido di indignazione anti-giapponese e, più largamente, anti-imperialista, di certo non appartenente a signori di mezza età con bastone e bombetta, che in quegli anni erano probabilmente impegnati in più salutari attività agresti.

    Resta la curiosità di risalire alla fonte di questa intrusione di significato nell’inno sopracitato, forse una differente versione cantata dai soldati al fronte, forse una traduzione “di parte” e molto libera in buona o cattiva fede, forse una lettura coscientemente “orientata” di Roth stesso, necessaria e funzionale al romanzo stesso.

  2. Roberto Punzo Says:

    … il desiderio di riconoscimento, il bisogno di essere riconosciuti per quello che si è …
    Secondo disorientamento lacaniano, non bisognerebbe confondere desiderio né con bisogno né con domanda. Il desiderio sarebbe mancanza iscritta nella parola. Se, per soddisfare i loro bisogni più essenziali, gli animali non umani si approprierebbero istintivamente di ciò che prendono di mira, agli animali umani si imporrebbe di domandare, in una posizione di dipendenza da altri animali umani, ai quali sono legati da un uso comune della parola e del linguaggio; la particolarità del bisogno sarebbe in un certo modo annullata, importerebbe la risposta dell’altro in quanto tale: “Vale a dire che la domanda diventa domanda d’amore, domanda di riconoscimento”1 .
    Il desiderio metterebbe in moto il soggetto nel mondo del linguaggio, come a nessun altro animale, non umano, sarebbe possibile. Per essere riconosciuti ci si rivolgerebbe a qualcuno, Altro, il che è il presupposto di una domanda, “caratterizzata non solo dal fatto di essere un rapporto di un soggetto con un altro soggetto, ma (dal fatto) che questo rapporto si attua mediante un sistema di significanti” (J. Lacan, Le Séminaire, livre VII, Le désir et son interprétation, lezione del 26 novembre 1958)2 . La domanda di riconoscimento sarebbe “non domanda di avere un <> ma … domanda intransitiva di essere un soggetto”3 . Il desiderio non sarebbe quindi un movimento ‘verso’, qualcosa o qualcuno che sia.

    1 Vedi voci ‘Domanda’ e ‘Desiderio’ in “Dizionario di psicanalisi”, a cura di R. Chemama e B. Vandermersch, Gremese Editore, Roma, 2004.
    2 Vedi voci ‘Bisogno’, ‘Desiderio’ e ‘Domanda’ in “Jacques Lacan istruzioni per l’uso” di Salvatore dell’Io, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994.
    3 In “Lacan, il maestro assoluto” (titolo originale, “Lacan. The Absolute Master”), di M. Borch-Jacobsen, Einaudi, Torino, 1999 (pag. 252).

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