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Indignazione

3 novembre 2008

Ha senso indignarsi, nella poststoria? Non siamo forse nella noia infinita del transpolitico, come sostiene Baudrillard, in quel tempo che conosce una sola passione, il lavoro del lutto e la gestione dei residui?
Indignazione è il titolo del nuovo romanzo di Philip Roth, uscito in inglese il 16 settembre. Indignazione che infiamma ormai da tempo la coscienza politica del più grande narratore americano.

Philip Roth

Philip Roth

Brucia d’indignazione anche il giovanissimo protagonista del romanzo, a causa delle autorità che tendono continuamente a non riconoscere la sua libertà di pensiero. E d’indignazione, infine, muore il giovane Marcus su di una collina coreana, ucciso da una raffica dei cinesi all’attacco al grido proprio di “Indignazione”, come nel loro inno nazionale che ricorda gli affronti subiti dai giapponesi (“Arise, ye who refuse to be bondslaves! / . . . Indignation fills the hearts of all of our countrymen, / Arise! Arise! Arise!”.
Tante indignazioni quindi, come tante sono le cause della rabbia e dell’ira. Oggi, l’indignazione fa pensare soprattutto a signori di mezz’età, con bastone e cappello, indignati per la decadenza morale dei giovani: un sentimento piuttosto stantio e improduttivo, che cela il distacco e l’impotenza.  
Le centinaia di migliaia di persone in piazza in queste settimane testimoniano della possibilità, ancora, d’indignarsi e di agire. Anzi, vorrei che la capacità di sentirsi indignati, tutti insieme, non venisse meno e continuasse a coniugarsi all’azione politica: come se nella poststoria non venisse meno il desiderio di riconoscimento, il bisogno di essere riconosciuti per quello che si è e per quello che si vale e di riconoscere a nostra volta i nostri simili, coi loro sentimenti e con le loro ragioni.
L’ira va capitalizzata. Non bruciata in falò effimeri. Se non ci si fida degli sportelli che la politica mette a disposizione, che se ne creino allora creare una nuova banca dell’ira nella quale riporla. L’importante è accumularla per spenderla al momento giusto: politica significa anche saper attendere. Per non farsi prendere da quell’estremismo della stanchezza – così lo chiama Sloterdijk – che fa sì che l’ira si disperda in una misocosmia generalizzata, in un’ostilità contro il mondo in quanto tale e in quanto intatto, e solo perché intatto, mentre ci si sente rotti e dispersi. E’ possibile andare al di là del risentimento. E’ lecito e possibile non dare per persa la battaglia con la demoralizzazione. E’ possibile non cessare di guardarsi con gli occhi degli altri.