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Liberarsi dal risentimento

24 dicembre 2008

barcone_migranti_nMa il ritorno al passato, al certo, al conchiuso, non comporta affatto un rinsaldarsi della saggezza locale, del genius loci. Anzi: tra gli sradicati riterritorializzati vi è scarsità di saggezza (Bonomi), nel senso che non vi è esperienza delle novità, esperienza che toglierebbe il carattere di nuovo assoluto – neutralizzandone il potere di choc – al migrante, all’altro, ad una politica sconosciuta perché deideologizzata e secolarizzata: “l’esperienza dovrebbe essere la risorsa attraverso cui le società locali riescono a metabolizzare la modernità; la sua mancanza espone invece queste società ai traumi della novità”[1].
Il che contribuisce a spiegare perché tante emergenze. Perché c’è l’emergenza-immigrati, l’emergenza nomadi, l’emergenza traffico, l’emergenza rifiuti? E’ proprio la mancanza di esperienza a far leggere gli eventi sempre in chiave emergenziale: tutto vien visto e vissuto come qualcosa di inedito, di sorprendente, anche se il più delle volte si tratta di eventi acuiti invece proprio dall’inesperienza nel gestire pratiche amministrative e socio-politiche assolutamente normali per una modernità che non si svegli, come Aligi, dopo un sonno di cinquant’anni.

Nel corso degli anni Novanta, si è verificato al Nord Italia un progressivo disallineamento tra livello economico e livello politico. Ancor più ciò è vero a livello di vissuto: la gente del Nord ha creduto, ha sentito di non essere adeguatamente rappresentata politicamente per quanto produceva. Com’è noto, la Lombardia fruisce dell’11% degli investimenti pubblici in Italia, a fronte di un’incidenza sul PIL del 20% e di una popolazione che rappresenta il 16% dell’intera popolazione italiana. Da qui la richiesta sempre più pressante del cosiddetto federalismo fiscale.   ap130834670106155122_big

La sensazione di contare poco in rapporto al proprio peso economico si è tradotta, con un cortocircuito, nell’accusa d’incompetenza verso le leadership nazionali. Un’accusa formulata in toni spesso astiosi, figlia del risentimento. Rancore e risentimento sono stati i sentimenti-chiave per molti degli italiani del Nord negli anni Novanta: “il rancore come forma politica di massa prolifera proprio in coincidenza con la sindrome da abbandono che i fallimenti della politica possono causare”[2].

E Bonomi a questo punto si chiede: “può una società afflitta da esaurimento esprimere ancora passioni, posto che le passioni sono una risorsa vitale per la società?”[3]
La risposta va nel segno che questo corso sta cercando fin dall’inizio di sostenere: che le grandi passioni vanno a braccetto col grande Fare (per fare solo un esempio, l’ambito che Heidegger aveva individuato nel Saggio sull’opera d’arte come proprio appunto dell’arte e della politica costituzionale), mentre al riprodurre, ai meccanismi della riterritorializzazione si addicono di più passioni piccole e fredde: “quanto basta, cioè, per ricondurre la discontinuità alla loro stessa scala e, al contempo, mantenere una riserva di affettività da investire nelle tante appartenenze della vita sociale”[4].

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

La società del Nord, quindi, tra la fine degli anni Novanta ed oggi ha espresso passioni che, nello schema suggerito da Sloterdijk, potremmo intanto definire timotiche, e non erotiche, e poi – valutandone il gradiente – considerare con Bonomi “piccole e fredde”: l’ira di Borghezio non è paragonabile all’ira di Achille…
Bonomi ritiene che al centro vada posto il nesso tra passioni e interessi. E che il Nord non abbia semplicemente optato per gli interessi contro le passioni, ma abbia dislocato queste ultime dalla sfera politica a quella economica. Ma è proprio questo dislocamento che depotenzia le passioni e, soprattutto, le vira verso il bordo erotico, escludendo il timotico: le grandi passioni timotiche, appunto, sono legate alla Politica e si ridimensionano molto quando devono esprimere la vis economica, anche degli stessi soggetti.
Tuttavia, c’è chi è riuscito ad intercettare la carica emotiva delle passioni timotiche forti prima che scadessero nell’economico, depotenziandosi. Il movimento che meglio ha saputo farlo – come abbiamo visto – è stata la Lega Lombarda, poi Lega Nord.
meno_tasse_piu_soldiOggi la Lega, nonostante i suoi consistenti risultati elettorali, appare in trincea. Non esprime più la novità dei distretti produttivi del Nord, non rappresenta più la politica gregaria dello sviluppo autoregolato dalla società civile, come negli anni Novanta. Il localismo non appare più sufficiente a sostenere la sfida della globalizzazione, la necessità di dar vita ad euroregioni a cavallo delle frontiere. Inutile illudersi di rispondere localisticamente allo spiazzamento generato dall’irrompere della globalizzazione sul territorio ed al contemporaneo affievolirsi dello Stato-nazione. Occorrerebbe piuttosto elaborare quelle strategie di accettazione della sfida globale che Bonomi definisce “lobal“, coniugando localismo e globalità.
Per fare un esempio, un’azienda della Valsassina – Premana – respinge la concorrenza cinese ed è leader nella produzione di forbici e coltelli. Altri esempi potrebbero essere l’Aem e la Sondel, nate per costruire dighe ed ora “padrone” dell’oro bianco alpino, cioè delle acque. Un altro esempio ancora è Ducati, nata e cresciuta nel distretto emiliano e passata di mano un paio di volte, ma che al di là di Stoner e delle vittorie nel Mondiale Moto GP ha imposto un modello ricco di componenti immateriali (di marketing, valoriali ed emotive) oltre che tecnologiche. Tutte realtà economiche ma non in senso asfittico, capaci di utilizzare al meglio i beni competitivi territoriali (le risorse locali per i quali non si paga un prezzo aggiuntivo) e le fabbriche del capitale umano e della conoscenza, come le università e gli uffici-studi.
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Come Sloterdijk titola il suo ultimo capitolo in Ira e tempo, occorrerebbe andare al di là del risentimento. Certo, è difficile, perché l’ira non può più condensarsi in raccolte universali di tipo comunistico, e sarebbe meglio non cedere al ricatto antisecolare delle religioni monoteistiche ed alle loro pretese di universalità che piuttosto che una soluzione costituiscono esse stesse una parte rilevante del problema.
Possibile allora che l’ira si faccia strada soltanto in raccolte di tipo local-regionalistico? Sloterdijk propone piuttosto di far nostro il programma igienico nicciano di liberazione dallo spirito del risentimento. Una intelligenza che si sia nuovamente riappropriata delle proprie legittime motivazioni timotiche; che sia insomma orgogliosa di sé, forte di un amor proprio scevro da propositi di vendetta, potrebbe aspirare a delineare progetti meno asfittici, capaci di accompagnare il mondo nel cambiamento, senza dare per perse le battaglie contro la distruzione dell’ambiente e contro la demoralizzazione strisciante. Per riuscirci, dovremmo sempre guardarci con gli occhi degli altri – propone Sloterdijk[5]. L’obbiettivo resta classico: estendere la civilizzazione, così come la intendeva Thomas Mann, promuovere insomma una cultura il più possibile universale. Una cultura che sfugga all’alternativa attuale tra una proposta occidentale ipererotizzata ed una medioorientale ipertimotica, devastata dal risentimento.


[1] Aldo Bonomi, Il rancore, cit., pag. 29.
[2] Ivi, pag. 63.
[3] Aldo Bonomi, Il rancore, cit., pag. 31.
[4] Ibidem.
[5] PS, IeT, pag. 273.

Spaesamento

24 dicembre 2008

Lo spaesamento è un concetto fondamentale nel sistema di Peter Sloterdijk. A monte, e ad esso riconducibile, vi è un nodo cruciale. Il concetto stesso di umanità sarebbe gravido di un paradosso attivo, esprimibile nella formula seguente: noi tutti formiamo una comunità con gente con cui non abbiamo nulla in comune. Gente non in quanto soggetto sovra individuale, ma puro agglomerato di unità singole e irrelate. Dopo Castoriadis, Claessens e Luhmann, dovrebbe esserci chiaro che le società sono società, fin quando riescono ad immaginarsi tali.
L’innesco di questa bomba logica a scoppio ritardato sarebbe nel concetto stesso di specie, perché concepito a carattere inclusivo[1]. La deflagrazione continua di questo ordigno scuote la possibilità stessa della Politica e ne mina le fondamenta. Come fare comunità con i diversi? E chi sono costoro e da chi ed in che sono diversi da noi? Ma soprattutto, date le premesse, chi siamo noi? è possibile individuare appunto una comunità che non sia virtuale, o fittizia? Se, come scriveva Camus, oggi la disgrazia è la patria comune, se lo spirito di desolidarizzazione privata, locale, nazionale, multinazionale, imperiale giunge così in profondità, non ci attenderanno forse – sostiene Sloterdijk – decenni futuri pieni di pericoli, nel segno della nuova situazione multi-egoistica?
Proveremo a rispondere, giovandoci delle interessanti riflessioni svolte su di un piano sociologico da Aldo Bonomi, in una pubblicazione recente.

Aldo Bonomi

Aldo Bonomi

Ma il fondatore ed animatore del consorzio A.A.STER, da più di dieci anni sta tracciando una mappa avvincente del lavoro e dei conflitti italiani, soprattutto al Nord. Era del 1997 Il capitalismo molecolare, La società al lavoro nel Nord Italia (Einaudi, Torino) che mostrava come nel nord Italia ci fossero 67,9 imprese per ogni 1000 abitanti, con una media di 4,9 addetti, di cui solo il 18,5% costituito da imprese manifatturiere. Il libro rilevava un dato ormai evidente: grande fabbrica e pubblica amministrazione occupavano  una parte ormai ridotta del “popolo dei produttori” del Nord, e ancor più oggi, dieci anni dopo. Composto da situazioni difformi, il Nord si presentava già allora come un arcipelago di contraddizioni e conflitti fra territori e sistemi produttivi, diviso tra aree alpine e pedemontane attivamente attraversate dalla globalizzazione e “zone tristi”, escluse dalla modernizzazione.

Ma il Nord non è solo erotizzazione attraverso l’acquisto di beni. Il libro del 2000,  Il distretto del piacere, esplorava l’altra faccia della medaglia, il territorio sempre al Nord nel quale prosperano le filiere dell’impulso, dell’emozione e del desiderio. E come per la fabbrica fordista o per il capitalismo molecolare si danno città e distretti produttivi in cui è possibile osservare le forme dei lavori e dei conflitti, così in quel territorio che va da Gardaland a Rimini e a Cattolica, includendo anche la città-regione di Bologna e Venezia, si dispiega la “fabbrica libertina” che può essere indagata e raccontata come il distretto del piacere. Qui il corpo diviene moneta vivente nel circuito produttivo della “liberazione” fisica e sessuale: fitness, body trance, massaggi, meditazione, rilassamento, tatuaggi, danza. aquafanQui mettono al lavoro la loro “nuda vita” le cubiste, i DJ, i PR e i tanti nuovi “attivi senz’opera” nel ciclo del “tempo libero” fatto di parchi-gioco e villaggi-vacanze.
Ma il distretto del piacere, oltre a essere un nonluogo delle emozioni, dello spettacolo e del turismo, è anche un iperluogo della produzione dove lavorano – per lo più in forma precaria, saltuaria, stagionale – 150.000 addetti: quanti ne aveva un tempo la FIAT a Torino.

Prima di continuare a riflettere sui sentimenti degli italiani di oggi, Bonomi alla mano,  vorrei tornare un attimo a Sloterdijk e correggerlo con Sloterdijk stesso, facendo notare che almeno una cosa importante i protagonisti atomistici di questa communitas che tale non è, la condividono eccome: ed è quella dinamica del desiderio nei confronti delle cose, innescata da quelle che Bonomi chiama “le piccole fredde passioni“, tipiche dell’attuale fase storica e che appartiene in pieno, secondo il nostro autore, alla declinazione erotica delle passioni del soggetto. Rispondendo ad un’intervista su “L’Espresso” un anno fa, Sloterdijk diceva: “Siccome le agenzie celesti sono fallite, non ci rimane che il capitale, in cui ripongono le speranze sei miliardi di fedeli consumatori. Il capitalismo è un progetto di antropologia universale. Al suo interno l’uomo è prima di tutto un essere che desidera. Non in senso materialistico, ma edonistico: dall’epoca moderna in poi, l’uomo occidentale cerca la felicità tramite il possesso di oggetti e consumo di merci”.
Insomma, ci si deve accontentare dei beni di qua, se quelli di là non ci vengono più presentati con la stessa incisività e persuasione di una volta: “Il più grande e, in apparenza, affidabile banchiere della storia resta Dio, l’amministratore delegato dell’eternità. E il suo istituto di credito è il Paradiso. Miliardi di fedeli hanno investito nei secoli le speranze in Dio, attendendo il riscatto della vita eterna…”[2]. Oggi la fede cristiana è in crisi, mentre quella nel capitalismo – nonostante le profonde ferite inferte all’ambiente e le turbolenze finanziarie dei mercati – gode di una salute migliore e la felicità viene sempre più ricercata attraverso il possesso di beni materiali. Come dimostra la breve fenomenologia della ricchezza del Nord Italia illustrata appunto da Aldo Bonomi nel suo più recente lavoro. In altri termini, vi è un vasto mercato di merci concepite per soddisfare i desideri erotici delle persone. Che ne è del mercato dei desideri timotici? C’è la stessa offerta? A mio avviso, dopo il fallimento delle due banche universali dell’ira alle quali Sloterdijk si riferisce usualmente – il Paradiso dei Santi e quello dei Rivoluzionari – il mercato delle passioni timotiche ha subito una contrazione avvilente che ha fatto sì che, in capo ad una ventina di anni, l’offerta di Befriedigung – di soddisfazione nel senso hegeliano di appagamento – dei desideri timotici sia stata quasi monopolizzata dalle organizzazione politiche di Destra. la-tua-rabbia
La sottovalutazione dell’universo timotico, in politica, sarebbe quindi imputabile principalmente alla parte progressista e deomocratica, la quale ha probabilmente scontato più della controparte quella fiducia eccessiva – “illuminista” direbbe Lakoff – nell’evidenza della ragione, prendendo le distanze sia dalle passioni timotiche “al positivo” (onore, amor proprio, orgoglio, ecc.), sia da quelle troppo facilmente connotabili “al negativo” – come l’ira, la paura, la rabbia, il rancore, eccetera.


[1] Peter Sloterdijk (1993), Dans le même bateau. Essai sur l’hyperpolitique, ed.fr. Éditions Payot & Rivages, Paris 2003, pag. 12.
[2] Intervista a Peter Sloterdijk, “L’Espresso”, 20 settembre 2007.

Teologie dell’ira

10 dicembre 2008

Agostino sarebbe il vero prosecutore dell’empito paolino. Il Vescovo d’Ippona ha sempre cura di considerare l’ira divina nel suo significato di castigo – dal momento che Dio è impassibile, immune dalle emozioni, come dice Salomone: “Tu però, Signore delle Potenze, giudichi con tranquillità”. Già nel Contra Adimanto aveva insistito – in polemica coi Manichei – che passioni quali l’ira e la misericordia, quando riferiti a Dio, non si dovevano intendere letteralmente. Dio, per Agostino, non può essere collerico: come più tardi per Tommaso, Dio è  “iratus non irasceris”, “irato ma non si adira”, intendendo l’ira come la manifestazione del dolore e dello sdegno di Dio nei confronti dei peccatori. La cui massima espressione sarà nel giorno dell’ira, in quel Dies Irae in cui Dio chiamerà a giudizio tutti e si dorrà dei peccati dei molti.
Quel giorno, Dio chiuderà la Storia: quel che è al di là del giudizio sarà distinto e separato da quello che è ancora al di qua, non soltanto relativamente, ma assolutamente […]. E il mutamento che deve essere preso in considerazione dove Dio parla ed è conosciuto come giudice, è così radicale, che esso appunto unisce in modo infrangibile tempo ed eternità, giustizia umana e giustizia divina, al di qua ed al di là”[1]. Il Dies Irae è dunque il vero ultimo solco, il discrimine, il vallo tra il tempo e l’eternità. Sotto il segno dell’ira accade “la più radicale liquidazione della storia, il “No” sotto il quale cade ogni carne, la crisi assoluta che Dio significa per il mondo degli uomini, del tempo e delle cose”. Infine, alla fine dei tempi, “la sottomissione all’ira di Dio è la fede nella sua giustizia”[2].
Con l’avvento del Cristianesimo ed il suo imporsi, sorge un nuovo interrogativo che s’innesta sull’antico: se la nuova religione si propone come centrata sull’amore, sul perdono, sulla rinuncia alla vendetta (“offri l’altra guancia”), come può mantenersi ancorata ad un’escatologia così furiosa? Già le Lettere di Paolo, e poi Tertulliano nel corso del II secolo, Lattanzio un centinaio d’anni più tardi, Sant’Ambrogio e San Tommaso e gli altri Padri della Chiesa avevano cercato di rendere compatibile il thymós di Dio con le sue altre, nuove caratteristiche. Spiegando perché anche il Dio cristiano non solo sia potenzialmente capace d’ira, ma debba essere adirato nell’attualità. Per i teologi, insomma, non si può omettere l’ira dallo spettro delle caratteristiche di Dio, pur se le passioni in quanto tali non possono incontrarsi che nell’uomo. NG002104Scrive Tommaso: “Deus autem non potest ab alio tristitiam pati, quantumvis peccatis offendatur; Ergo cum punti peccata, non irascitur proprie; sed effectu ipso ita se gerit, ac si esset iratus”[3]. Come già per Ambrogio, il giudizio divino non è contaminato da passioni ed influssi di sangue, e neppure dalla tristezza per dover infliggere la pena.
Nella Somma teologica, Tommaso è netto al riguardo: “Alcune tra le virtù morali hanno per oggetto le passioni; così la temperanza ha per oggetto la concupiscenza; la fortezza il timore e l’audacia, la mansuetudine l’ira. E tali virtù non si possono attribuire a Dio altro che per metafora, perché in Dio non vi sono né passioni, come si è detto sopra, né vi è l’appetito sensitivo, nel quale risiedono tali virtù come dice il Filosofo. Vi sono invece altre virtù morali come la giustizia, la liberalità e la magnificenza: che hanno per oggetto le operazioni, e cioè le donazioni, le spese e simili: ed esse non risiedono nella parte sensitiva, ma nella volontà. Quindi niente impedisce che tali virtù si attribuiscano a Dio, non certo per delle azioni di carattere sociale, ma per azioni confacenti a Dio. Sarebbe, infatti, ridicolo, come osserva il Filosofo, lodare Dio per le sue virtù politiche”[4].
Tuttavia, Dio fa il viso dell’arme, e spesso; lo scoppiare fragoroso della sua ira, giacché questa non è nella sua natura, è dovuto allora all’aver riscontrato nell’uomo una risposta imperfetta, mancante, peccatrice.
Andiamo un attimo alla Lettera ai Romani, il testo paolino forse più esplicito ed insieme problematico riguardo al nostro tema. Scrive Paolo: “Ma se la nostra insubordinazione dimostra la giustizia di Dio, che cosa dobbiamo dire di ciò? Dio stesso non è allora ingiusto nel dar corso alla sua ira? (Io parlo secondo la logica umana!) Impossibile! Poiché, come si spiega allora che Dio giudica il mondo?”[5].

Paoloscrive le lettere, Valentin de Boulogne, 1621

Paolo scrive le lettere, Valentin de Boulogne, 1621

Solo nell’inadeguatezza dei suoi eletti Dio si dimostra veramente Dio – aveva spiegato poco prima Paolo. In altri termini, solo se l’uomo pecca Dio può dimostrare la sua giustizia. Ma se l’insubordinazione dell’uomo serve a dimostrare – diciamo così – la giustizia di Dio, che diventa questa giustizia, si chiede Karl Barth con Paolo nel commento alla Lettera?: “Non è essa stessa ‘insubordinazione’? Dio stesso non è forse arbitrariamente sovrano, non è forse un io superiore degno di essere addirittura temuto per il suo carattere criminale? La sua ira, la nostra dedizione alla signoria del non-Dio (1: 22-32) non testimonia allora contro di lui? Lo stato del mondo e dell’uomo non è forse allora la vera espressione della più intima essenza di Dio, che è una insondabile, capricciosa tirannia? Se il non-senso della storia dimostra il suo significato nascosto, questo significato stesso non è allora necessariamente un non-senso?”[6].
Barth risponde, con Paolo, che occorre parlare del vero Dio, del Giudice del mondo che non è però parte del mondo. Le nostre domande/obiezioni sono altrimenti viziose, non colgono un punto decisivo: il vero Dio non è ‘insubordinato’, non è ‘arbitrario’, non è ‘capriccioso’. Perché? “Perché soltanto nel suo giudizio, contrapponendosi a Lui, l’insubordinazione, l’arbitrio, il capriccio che regnano nel nostro mondo si manifestano alla nostra coscienza nella loro problematicità”.

Per il fedele, resta una difficoltà aggiuntiva. Risulta davvero difficile capire come si possa credere ed amare un Dio che – essendo onnisciente – già si adira al pensiero che una delle sue creature ancora non create un giorno peccherà, mandandogli così di rispetto. Commenta Sloterdijk non senza ironia: “Chi si chiede ancora come l’ira possa essere suscitata contro il peccatore insensibile prima che il peccatore destinato a peccare faccia il suo ingresso nell’esistenza, dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi che egli stesso non sia un contenitore destinato alla frantumazione [riprendendo l’immagine paolina di Lettera ai Romani, IX]”[7].
Tradizionalmente, l’ira di Dio “dipende” dall’onnipotenza, dalla giustizia o dall’amore del Creatore. Un primo problema insorge proprio dalla dicotomia onnipotenza-giustizia: lo nota già Paolo, e se ne ritrae quasi terrorizzato, opponendo alla logica (perché la libera onnipotenza di Dio è responsabile, diciamo così, artefice forse è meglio, di molti più fatti nel mondo rispetto a quelli che possono esser soddisfatti con il principio di giustizia?) un assioma: che l’uomo non può chiedersi perché, di fronte all’operato di Dio.
Sarà possibile allora dedurre l’ira dalla giustizia? Anche questo è un terreno minato. Intanto, perché come ammonisce Tommaso d’Aquino, è complicato predicare di Dio la giustizia, perché in effetti la giustizia sembra doversi predicare degli atti, non delle essenze. Tommaso trova questa risposta: “Sebbene la giustizia riguardi l’operazione, non per questo, tuttavia, si esclude che si identifichi con l’essenza di Dio, perché anche ciò che appartiene all’essenza di una cosa può essere principio di azione. Ma il bene non riguarda soltanto l’atto, perché una cosa si dice che è buona non solo in quanto agisce, ma anche in quanto nella sua essenza è perfetta. E per questo motivo nel luogo citato si dice che il concetto di bene sta al concetto di giusto, come il genere alla specie”[8].
Se non si usano gli occhi della fede, difficile accontentarsi. Secondo Sloterdijk, “l’ira, fatta passare come conseguenza della giustizia, ubbidisce in verità ad una logica di maestà politica. Questa s’incarna in un teatro immaginario della crudeltà che fa durare in eterno ciò che nel tempo non sarebbe sopportabile per un secondo”[9]. Oltretutto, si tralascia un’incongruenza teologicamente non irrilevante, come la derivazione di una colpa infinita da una colpa finita. Perché la giustizia di Dio infligge tormenti eterni a chi è stato attore di colpe pro tempore? Ma, direbbe Paolo, piantiamola col farci queste domande, di per sé incongrue, dal momento che è assurdo che un uomo voglia darsi conto del volere dell’Altissimo.
Resta la derivazione dell’ira di Dio dal suo amore. Da Lattanzio in poi, chi ha sostenuto questa origine stressa la bipolarità – per dire così – della vita affettiva di Dio: se non odiasse gli infedeli e gli ingiusti, Dio non potrebbe amare i timorati ed i giusti. Perciò, Dio è iroso a ragione.
I teologi cristiani post-medioevali cercarono una via per sfuggire agli eccessi teologici dell’ira. Per i peccati veniali, possibile finire all’Inferno? E fu così che inventarono il terzo luogo, il Purgatorio, nuovo modello e matrice della Storia, nel corso della quale l’umanità si costituisce come collettivo globale capace di liberarsi, passo dopo passo, dal peso dei suoi peccati minori. Da questo punto di vista, la reazione di Lutero al fenomeno delle indulgenze fu davvero reazionario, nostalgico della logica dell’entweder/oder, dell’alternativa binaria Inferno/Paradiso, secondo la quale nulla era possibile al fedele. Viceversa, la Chiesa cattolica aveva imboccato un innovativo sistema di credito: “in esso si potevano diminuire con dei pagamenti anticipati i quanti d’ira divina negoziabili per peccati veniali – un procedimento che ricorda, non solo superficialmente, il moderno acquisto a rate”[10]. Mi avvicino la salvezza, scontando oggi – con spesa modica o ingente, dipende dalle colpe – parte di quel che dovrò espiare tra le mezzeluci del Terzo regno, in Purgatorio.


[1] Karl Barth (1954), L’Epistola ai Romani, edizione italiana a cura di Giovanni Miegge, pag. 51.
[2] Ivi, pag. 52.
[3] Tommaso d’Aquino, Dispos., 84, cap. VI, vol. I, 341°.
[4] Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I (Dio), questione 21
[5] Paolo Apostolo, Lettera ai Romani, V. 5-8.
[6] Karl Barth (1954), L’Epistola ai Romani, cit., pag. 56.
[7] PS, IeT, cit., pag. 121.
[8] Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I, 21, art. 1.
[9] PS, IeT, cit., pag. 123.
[10] Ivi, pag. 130.

De-drammatizzazione post-storica

11 novembre 2008

Perché la nuova Presidenza americana, movimenti di contestazione e di rivolta, il desiderio di cambiamento non possono essere interpretati come una nuova fase della Storia? Secondo Sloterdijk, “l’emergere simultaneo del terrorismo, nel rapporto con l’esterno della civilizzazione occidentale, e di una nuova questione sociale, nelle questioni interne” non può essere “assolutamente compreso come indizio di un ‘ritorno’ della storia. Nei suoi punti fondamentali, il modus vivendi dell’Occidente e delle sue culture affiliate, è, in senso tecnico, davvero post-storico (cioè formalmente non più orientabile all’epos e alla tragedia; e pragmaticamente non più costruibile sulla base dei successi di azioni dallo stile unilaterale) e, allo stato attuale delle cose, non si può riconoscere da nessuna parte un’alternativa che potrebbe rilanciare il ritorno nel copione della storia”[1].
Siamo tecnicamente nella post-storia. Tecnicamente e pragmaticamente. In senso tecnico, perché l’epos e la tragedia della Storia erano frutto del teleologismo, delle vicende di uno spirito inteso come forme assunte dall’incedere della libertà; libertà della soggettività occidentale, faustianamente orientata, hegelo-marxiana, otto-novecentesca per dir così. Pragmaticamente, perché non hanno più Senso le azioni che si pretendono unilaterali, ma che non possono esserlo mai, dal momento che viviamo in un mondo post-globalizzato, in cui ogni azione entra in risonanza con quelle di tutti: viviamo in tempi di cronocomunismo e di spazio comunismo, non importa quale teorema della fine della storia si adotti. Se ne danno, secondo Sloterdijk, almeno quattro versioni: Kojève 1, fine della storia nello stalinismo, 2. Kojève 2 (fine della storia nell’american way of life e nello snobismo giapponese), 3. Dostoevskij (fine della storia nel “palazzo di cristallo”) e Heidegger (fine della storia nella noia).islamisti
Secondo Sloterdijk la civilizzazione è attesa da un necessario periodo di apprendimento, possibile solo grazie all’impegno di una politica della de-drammatizzazione post-storica, periodo nel corso del quale un capitalismo riformato dovrà occuparsi anche di neutralizzare il potenziale genocida di quei giovani uomini adirati che ancora s’illudono di indirizzare la Storia con i loro dissennati atti unilaterali. Se per costoro la storia significa l’oscillazione di colpo e contraccolpo, la saggezza consiste allora nel fermare il pendolo. E possono tornar buoni anche gli insegnamenti che diverse scuole di pensiero – occidentali e orientali – ci hanno lasciato, come stoicismo, buddhismo, e lo stesso cristianesimo. Per una domesticazione post-storica dei potenziali d’ira degli esclusi.


[1] PS, IeT, pag. 54.

La prima parola dell’Occidente

21 ottobre 2008

Barnett-Newman, 1952

Barnett-Newman, Ira di Achille, 1952

“All’inizio della prima frase della tradizione europea, nel verso di apertura dell’Iliade, emerge, fatale e solenne come un appello che non tollera obiezioni, la parola ‘ira’. Il nome è in accusativo come si conviene all’oggetto ben definito di una frase. ‘L’ira celebro, o Dea, di Achille, del Pelide (…)’”. Ecco, quindi: nell’Occidente antico ogni cosa iniziò con lei, l’ira.
Il che è naturale, secondo Sloterdijk, essendo l’ira «la forza fondamentale nell’ecosistema degli affetti» che anima i corpi e le menti degli europei sino, appunto, dall’Iliade. Nel corso della modernità, prima il cristianesimo, poi il comunismo, sarebbero riusciti a canalizzarla, trasformandola in energia spirituale e politica. Cristianesimo e comunismo avrebbero così aperto una serie di banche in grado di raccogliere l’ira coltivata dagli scontenti, assegnandole un valore di redenzione politica capace di rompere il cerchio dell’oppressione e di garantire una salvezza in questo o nell’altro mondo. 

Peraltro, il filosofo tedesco non è stato il primo a rimarcare questo esordio timotico della cultura europea: già Watkins (1987) ed altri lo avevano sottolineato, segnalava Remo Bodei già diversi anni fa[1].
Torniamo a quell’inizio nella piana di Troia, narrato dal poeta. Per quei casi in cui oggi si fa appello ai terapeuti o si cerca il numero della polizia, gli iniziati di allora si rivolgevano al mondo ultraterreno (vai a vedere se con minore fortuna…). Omero chiede alla divinità di legittimare il suo ricordo del sentimento che s’impadronì dell’eroe degli Achei ad un certo punto della guerra di Troia. Il poema, nella versione più antica nota ad Aristosseno, iniziava sì con l’ira, ma di Apollo, non di Achille. L’ira di Apollo fungeva da ponte tra l’ira di Zeus ricorrente nel mondo esiodeo e l’ira di Achille, pienamente omerica[2]. L’ira di Achille è, in effetti, l’ira di un uomo. La parola per dire quel sentimento è mēnis, in questo contesto traducibile con ira:

 

Menin aiede, thea, Peleiadeo Achileos
Oulomenen, he myri Achaios alge eteke (…).
[L’ira cantami, o dea, di Achille figlio di Peleo, l’ira funesta che ha inflitto agli Achei infiniti dolori, che tante anime forti ha gettato nell’Ade (…)].

Nella edizione classica a noi pervenuta, la mēnis umana di Achille è parallela all’ira divina di Apollo che decima con la peste l’esercito greco. Notiamo subito che Omero non desidera ricordare, descrivere e tramandare soltanto il sentimento di Achille, ma anche le conseguenze terribili che da quella passione derivarono: l’ira e le sue conseguenze. Ricorderete, quale anno fa, il film di Paolo Sorrentino Le conseguenze dell’amore? Ecco, le conseguenze, non l’amore stesso. Ciò che dalla passione viene innescato, le storie che ne nascono. Quindi, ira e tempo.
Quale ira? Mēnis è qui l’ira figlia dell’indignazione. Come vedremo, Omero spiega che, allorquando Achille rifiuterà i doni che Agamennone gli invia in riparazione, la sua legittima mēnis diventerà infatti qualcos’altro, cholos – cioè bile, umano rancore che avvelena l’animo. L’ira di cui qui si parla non è semplice collera: ha valore sacrale, numinoso. Secondo alcuni interpreti, non esprime l’irruzione dell’irrazionalità, quanto “il dilagare di una potenza generativa. Essa ha carattere essenzialmente morfogenetico. Produce, genera, conferisce forma”[3].
Agli esordi della tradizione culturale occidentale, viene dunque evocata una passione timotica, una passione-contro, l’ira. Che fa parte quindi di una costellazione di sentimenti distinta e diversa da quella dei sentimenti erotici, delle passioni-per. L’ira fa piuttosto parte della famiglia cui appartengono odio, melanconia, rabbia, rancore, risentimento, ma anche orgoglio, gloria, indignazione, autostima, amour propre, desiderio di riconoscimento – comunque atteggiamenti, disposizioni d’animo e comportamenti associabili appunto al thymós, termine molto complesso che indica il cuore (non l’organo, cardie, ma la sede delle passioni appunto), il principio della vitalità, e per estensione, la disposizione dell’anima a reagire energicamente, ad accendersi e quindi, in senso lato, l’ira[4].
Sentimenti forti e rilevanti, ai quali però – nell’ambito delle descrizioni psicologiche novecentesche che definiscono la natura dell’uomo – sarebbe stato riservato uno spazio relativo, poiché l’attenzione – almeno a partire dall’opera di Sigmund Freud – si sarebbe concentrata di più sulla disposizione erotica dell’individuo, nei suoi rapporti con gli altri e con il mondo.
Ira e tempo di Sloterdijk parte proprio da qui, da un presunto misconoscimento; ricostruendo l’evoluzione nella storia dell’Occidente di questa particolare passione, che per venire correttamente intesa deve essere osservata però nella relazione che intrattiene con il tempo. Nonostante sembri infatti una passione declinata al presente, all’esplosività e alla dispersione subitanea di energia, l’ira svela in realtà la sua natura e il suo ruolo politico solo se la si osserva proiettata all’indietro o in avanti nella dimensione temporale. In altri termini, è possibile cogliere la sua rilevanza sociale solo se la si osserva in rapporto con il passato e, soprattutto, con il futuro. Da subito, l’ira ha a che fare con l’intersoggettività, e già nell’Iliade si apprezza il suo rapporto stretto con il mondo delle regole sociali, particolarmente con le regole dello scambio interpersonale[5].
 
 
 

 


[1] Remo Bodei. Geometria delle passioni, cit., pag. 189 e segg.

[2] Omerica certo, ma quasi confinata nell’Iliade, poiché dell’ira – in questi termini – nell’Odissea quasi non vi è traccia. Su questo aspetto insiste molto Leonard Charles Muellner nel suo The Anger of Achilles: Menis in Greek Epic, Cornell University Press, 2005, in particolare vedi pag. 96 e segg.

[3] Cfr. Umberto Curi, Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Edizioni Dedalo, 1999, pag. 13.

[4] Nelle Rime, parte seconda, XXV, Dante canta: “Un dì si venne a me Malinconia e disse: «Io voglio un poco stare teco»; e parve a me ch’ella menasse seco Dolore e Ira per sua compagnia”.

[5] Anche su questo aspetto insiste molto Muellner, op. cit.

Rabbia e passioni

3 settembre 2008
Nel corso dell’ultimo Festival del cinema di Venezia, l’Istituto LUCE ha presentato l’edizione restaurata da Giuseppe Bertolucci di un film-documentario di Pier Paolo Pasolini e di Giovanni Guareschi: La rabbia, vista da sinistra e da destra.
 
Bertolucci e Tatti Sanguinetti hanno recuperato parte dei 90mila metri di pellicola tagliati a suo tempo per volere della produzione. Il taglio costò all’originale sedici minuti e sono proprio questi che Giuseppe Bertolucci ha ricostruito sulla base dell’unica sceneggiatura de La Rabbia disponibile oggi. Questa volta le voci narranti sono quelle di Valerio Magrelli e dello stesso Giuseppe Bertolucci, mentre nell’originale del’63 erano di Giorgio Bassani e di Renato Guttuso.
Le sequenze, recuperate grazie all’archivio cinematografico dell’Istituto Luce, si riferiscono ai funerali di De Gasperi, al rientro in Italia dei resti dei caduti di Cefalonia, alle alluvioni in Italia, Europa e Australia, alla guerra di Corea, ai conflitti coloniali di quegli anni e ad altri eventi di politica internazionale e infine alla televisione e al suo crescente successo che per Pasolini presagisce “la morte dell’anima” umana. Per un’opera del 1963, Pasolini scelse già quindi uno di quei sentimenti forti che si sarebbero ancor più diffusi nell’ethos del nostro Paese in questi anni, fino a dare un ruolo di primo piano, anche in politica, al rancore. Si tratta di uno spettro di passioni solo apparentemente secondario, che agisce invece profondamente a livello sociologico sul processo identitario, che gioca un ruolo potente in politica e le cui ripercussioni sociali sono rilevanti.
In questo suo saggio ideologico e poetico, Pasolini individuava “la malattia del nostro futuro” nell’annullamento dell’identità personale a favore del conformismo, dell’identificazione con la maggioranza; un sentimento falsamente democratico di stampo americano che stava uccidendo il senso stesso della tradizione: “Quando il mondo classico sarà esaurito – scriveva nel commento al film -, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo, allora la nostra storia sarà finita”.

 

Ecco. Appunto. “Quella” nostra storia è finita. Si trattava anzi della Storia [da esse maiuscola], che cedeva il campo, ed il tempo, ad un’altra era nella quale ancora siamo, nella cosiddetta post-istoria. Ma gli ultimi versi de La rabbia aprivano uno scorcio sul quale è importante ancor oggi riflettere:
“La Rivoluzione vuole una sola guerra, / quella dentro gli spiriti / che abbandonano al passato / le vecchie, sanguinanti strade della terra”.
La guerra ammessa, l’unica vera guerra rivoluzionaria, è da combattersi dentro gli spiriti. Affinché non avvizzisca, anzi rinasca sui visi quel triste sorriso della “sorellina minore del mondo”, Marilyn Monroe, morta l’anno prima, simbolo di una bellezza che scompare come un “pulviscolo d’oro” divorata da un’epoca senza pace, stritolata tra il consumismo trionfante dell’Occidente capitalistico ed il soffocarsi della speranza comunista nelle strade di Budapest del ’56 e nell’elefantiasi burocratica della nomenclatura sovietica. Un’epoca dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra e dalla guerra stessa. In sostanza, Pasolini apriva gli occhi su di un mondo in cui il sentimento dominante si annunciava essere la paura.
Già nel settembre del ’62, al settimanale comunista “Vie nuove” Pasolini aveva affidato un testo di presentazione del film, nel quale si legge:
 

“Così, mentre da una parte la cultura ad alto livello si fa più raffinata e per pochi, questi “pochi” divengono, fittiziamente, tanti: diventano “massa”. È il trionfo del “digest” e del “rotocalco” e, soprattutto della televisione. Il mondo travisato da questi mezzi di diffusione, di cultura, di propaganda, si fa sempre più irreale: la produzione in serie, anche delle idee, lo rende mostruoso.
Il mondo del rotocalco, del lancio su base mondiale anche dei prodotti umani, è un mondo che uccide.
Povera, dolce Marylin, sorellina ubbidiente, carica della tua bellezza come di una fatalità che rallegra e uccide.
 
Forse tu hai preso la strada giusta, ce l’hai insegnata. Il tuo bianco, il tuo oro, il tuo sorriso impudico per gentilezza, passivo per timidezza, per rispetto ai grandi che ti volevano così, te, rimasta bambina, sono qualcosa che ci invita a placare la rabbia del pianto, a voltare le spalle a questa realtà dannata, alla fatalità del male.
Forse tu hai preso la strada giusta, ce l’hai insegnata. Il tuo bianco, il tuo oro, il tuo sorriso impudico per gentilezza, passivo per timidezza, per rispetto ai grandi che ti volevano così, te, rimasta bambina, sono qualcosa che ci invita a placare la rabbia del pianto, a voltare le spalle a questa realtà dannata, alla fatalità del male.
Perché: finché l’uomo sfrutterà l’uomo, finché l’umanità sarà divisa in padroni e in servi, non ci sarà né normalità né pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui”.

Il corso, quest’anno, non si dilungherà oltre su Pasolini, autore che pure ha ancora tanto da dire ai nostri giorni. Piuttosto, lo scorcio attraverso il quale ci occuperemo di queste passioni (quelle contro, quelle non direttamente costruttive, come l’ira, la rabbia, il rancore, il desiderio di vendetta) è offerto dall’opera di un filosofo tedesco contemporaneo, Peter Sloterdijk. Dall’apertura costituita da alcuni suoi lavori recenti trarrò spunto per discutere con voi inizialmente di un tema francamente appassionante – è il caso di dirlo: esistono ancora e che statuto hanno le passioni nella nostra età, se consideriamo il nostro come il tempo della post-istoria?
L’orizzonte post-istorico, quindi, circoscrive e caratterizza questo approccio al mondo dei sentimenti. Preliminarmente, quindi, sintetizzerò quello che possiamo intendere con post-Storia, ricorrendo in particolare alle riflessioni di Alexandre Kojève: intanto, perché Kojève è di fatto “l’inventore” del concetto di post-Storia, e poi perché lo stesso Sloterdijk sceglie di misurarsi con lui e con le tesi di rimando di due interpreti importanti del filosofo russo-francese, cioè Francis Fukuyama e Jacques Derrida.
La cultura dell’Occidente, nel complesso, è incline a ritenere che si stia vivendo un tempo post-storico; fortemente imparentato – forse addirittura figlio diretto – dei tempi precedenti, caratterizzati da una presenza quasi militante del Senso. Non che si viva in tempi insensati, anzi: è come se la Storia ci avesse già consegnato tutto il Senso possibile e non ci rimanesse che interpretarne ed estenderne o rifiutarne questo o quell’aspetto. Insomma, il Tempo del Fare è finito, se intendiamo il Fare come la grande tradizione della filosofia classica tedesca e a chi ad essa si è richiamato (come in Italia Gramsci, Croce e Gentile, per esempio), ma anche come lo ha inteso Nietzsche e l’altra tradizione da lui inaugurata, per cui comunque restava uno Streben, una tensione verso una compiutezza ancora da raggiungere.
Siamo forti peraltro delle riflessioni novecentesche sul tempo, in particolare siamo ricchi dei contributi di Husserl, Heidegger e Jaspers e delle opere che – a volte in parallelo – ne hanno svelato o arricchito i significati – grazie ad artisti come Thomas Mann, Conrad, Proust, Musil, Pessoa, Borges, Schönberg, Picasso.
Tutto ciò non ci è alle spalle, ma è dentro di noi, costituisce la nostra più intima sostanza culturale. Non che il nostro compito si debba limitare ad un ruminare perenne del passato, come afferma chi vuole caricaturizzare l’ermeneutica gadameriana. È che il tempo delle grandi narrazioni sembra finito, il Tempo come misura dell’incedere della Libertà (Hegel, Fichte, Kojève) sembra al capolinea. Ora si cambia: scesi dai treni della Storia, ci guardiamo intorno, tra lo spaesato ed il riconoscente, per scegliere i nostri nuovi mezzi, per dare nuove gambe ai nostri pensieri e alle passioni superstiti.
Il corso, dunque, non è interamente dedicato a Sloterdijk: che pure ne occuperà una parte assai considerevole.
  

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

 

  Non mi considero tuttavia un suo concessionario, nel senso che non sono motivato dall’interesse ad importare la filosofia dell’eminente collega tedesco, titolare dell’insegnamento di Filosofia e Teoria dei media presso la Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, quanto ad usarne alcune categorie per ragionare insieme – ripeto – sullo statuto attuale delle passioni, cioè dei sentimenti forti, il più delle volte extra-privati, in un’epoca come la nostra in cui il grande Fare appare Fatto.   

Ciò nonostante, gli avvenimenti incalzano e mai come oggi, in un’epoca post-globalizzata, uno sparo nel Caucaso risuona minaccioso anche a Cesena o a Oklahoma City. Il mondo sempre più stretto ci avvicina forzosamente a chi solo i nostri nonni potevano legittimamente considerare straniero e altro da sé: oggi non possiamo non sentirci solidali con i Tibetani, o con chi subisce periodicamente i danni di questo o quel ciclone nel sud-est asiatico o con i profughi del Darfour. Un mondo senza più periferie e con innumerevoli centri ci rende prossimi anche i più lontani ed i diversi da noi, sollecitando però, così, ancor più sentimenti classici quali la paura ed il rancore.  

 

Fotogramma di Marilyn da La rabbia (1962)

Fotogramma di Marilyn da La rabbia (1962)