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Ira e thymos

3 novembre 2008

La questione del tyhmos trova la sua prima sistematizzazione nella dottrina platonica. Al mito narrato nel Fedro della biga alata e dell’auriga [1] è rimessa la prima significativa rappresentazione della natura umana, nella quale sia possibile individuare la funzione dell’aggressività e dell’ira nell’economia del comportamento umano. Il logos è l’auriga, il conduttore della biga, in grado di condurre verso l’alto l’elemento animale rappresentato dall’anima irascibile, simboleggiata dal cavallo bianco, mentre l’anima concupiscibile, simboleggiata dal cavallo nero, rende difficile e faticosa la guida del carro. Il cavallo nero, l’epithymetikon, tira insomma verso il basso, verso i desideri ribelli, ed a stento l’auriga riesce ad imporre la sua logokratia.
L’anima irascibile (il cavallo bianco) è come “neutrale” tra la parte razionale e quella concupiscibile e può allearsi con l’una e con l’altra parte. In altri termini, nel Fedro l’aggressività (della quale l’ira ancipite, dai due volti, costituisce il motore) non è giudicata negativamente tout court come la concupiscenza, perché se guidata dalla ragione può cooperare con essa al raggiungimento di fini positivi per la natura umana.
Questo aspetto è sviluppato nel libro IX della Repubblica, dove la parte irascibile dell’anima è definita come quella “che aspira tutta e sempre a dominare e vincere e ottenere buona fama”. La strategia di Platone intende quindi valorizzare la parte irascibile dell’anima, intesa come disposizione permanente dell’uomo ad agire volitivamente e risolutamente: ad essa viene attribuito il ruolo di radice ultima del coraggio, che nella scala di valori platonica, rappresenta, dopo le virtù intellettuali, la massima tra le virtù pratiche, quelle virtù che Aristotele definisce virtù etiche. Proprio il coraggio diverso rendeva già in Platone l’ilota migliore del “fante di marina”, perché l’ilota non ha altro che il proprio coraggio da gettare nella lotta, mentre il marinaio può farsi aiutare dalla tecnica, dal saper manovrare la barca.
 L’elemento della “buona fama” entra quindi come correlato dell’ira fin da Platone. È la prima traccia di quel desiderio di riconoscimento che Hegel piazzerà al centro della sua antropologia filosofica. L’aspirazione a godere di buona stampa, insomma: a valere in quanto individuo riconoscibile, ha a che fare quindi con l’ordine timotico delle passioni già in Platone.

Veniamo rapidamente ad Aristotele. Che scrive nell’Etica nicomachea (5. Le virtù sono disposizioni dell’anima):

«Dopo di ciò bisogna esaminare che cos’è la virtù. Poiché, dunque, gli atteggiamenti interni all’anima sono tre, passioni capacità disposizioni, la virtù deve essere uno di questi. Chiamo passioni il desiderio, l’ira, la paura, la temerarietà, l’invidia, la gioia, l’amicizia, l’odio, la brama, la gelosia, la pietà, e in generale tutto ciò cui segue piacere o dolore. Chiamo, invece, capacità ciò per cui si dice che noi possiamo provare delle passioni, per esempio, ciò per cui abbiamo la possibilità di adirarci o di addolorarci o di sentir pietà. Disposizioni, infine, quelle per cui ci comportiamo bene o male in rapporto alle passioni: per esempio, in rapporto all’ira, se ci adiriamo violentemente o debolmente ci comportiamo male, se invece teniamo una via di mezzo ci comportiamo bene. E similmente anche in rapporto alle altre passioni. Passioni, dunque, non sono né le virtù né i vizi, perché non è per le passioni che siamo chiamati uomini di valore o miserabili, bensì per le virtù ed i vizi, e perché non è per le passioni che siamo lodati e biasimati (infatti non si loda né chi prova paura né chi si adira, né si biasima chi semplicemente si adira, ma chi si adira in un certo modo), mentre siamo lodati o biasimati per le virtù ed i vizi. Inoltre, ci adiriamo o proviamo paura senza una scelta, mentre le virtù sono un certo tipo di scelta o non sono senza una scelta. Oltre a questo si dice che siamo mossi secondo le passioni, ma che secondo le virtù ed i vizi non siamo mossi, ma posti in una certa disposizione. Perciò essi non sono neppure delle capacità. Infatti non siamo chiamati buoni o cattivi, né siamo lodati o biasimati per il semplice fatto di poter provare delle passioni; inoltre, abbiamo per natura la capacità di esserlo, ma non diventiamo buoni o cattivi per natura: abbiamo parlato di questo prima. Se dunque le virtù non sono né passionicapacità, rimane che siano delle disposizioni. Ciò che è la virtù dal punto di vista del genere, è stato detto».

Per lo Stagirita, l’ira dunque è senz’altro una passione. Ma, per sé presa, non è buona né cattiva. Lo diviene, se la pieghiamo a strumento della nostra virtù o del nostro vizio: dipende dalla nostra disposizione, e riguardo all’ira in particolare – dice Aristotele – conviene che la nostra disposizione ci tenga lontani dagli estremi, dall’adirarsi violentemente o debolmente.
L’importante, comunque, è non farsene guidare: “L’ira è necessaria, né si può fare nessuna conquista senza di lei, senza che essa empia l’animo e accenda gli spiriti: ma bisogna adoprarla non come condottiero, ma come soldato”. Se diviene una pedina, se riusciamo a volgerne la forza a nostro vantaggio, l’ira si svela un’alleata preziosa.

Occorre inoltre tener conto di una distinzione. La menis greca comprende sia l’ira propriamente detta, sia il furore. Quest’ultima passione ne è la versione più universale, più neutrale – in senso platonico, e ne costituisce anche l’innesco. È quel fervore, il furor latino, quella spinta che muove Dio ed il mondo, spinta che può imbronciarsi ed assumere connotati negativi e neganti. Siamo sempre nell’universo timotico, ma il furore di Dio (il Gotteseifer del recente volume di Sloterdijk, pubblicato in questi giorni dalla Raffaello Cortina Editore) va ben distinto da quel Zorn Gottes, da quell’ira divina che precipita il diluvio sulla terra e sulle sue creature.

[1] Platone, Fedro, 246 a – 249 b.