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Elogio dell’ignavia – Come salvare Julian [di Fabio Piloni]

14 gennaio 2009

E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’ è che par nel duol sì vinta?».

Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
 

Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, canto III

Mi sono sempre chiesto perché Dante mise gli ignavi, quelli che non prendono posizione, nell’Inferno. Anzi nemmeno in quello! Il poeta s’inventò l’Antinferno per queste anime tristi, che se fossero scese nell’Ade avrebbero fatto sì che i dannati si sarebbero potuti glorificare rispetto ad essi; avendo loro almeno scelto, nella vita, da che parte stare, sia pure nel male. Io mi sentivo però una di quelle povere anime, non riuscivo a vedere l’assoluto bene da una parte e l’assoluto male dall’altra. Perché dovevo essere condannato in modo peggiore di chi aveva scelto il male? Finalmente ho avuto una piccola rivincita attraverso Sloterdjik e Lakoff che, rispettivamente, con il proclama del pensiero polivalente e del biconcettualismo, mi hanno salvato dal correre nudo per l’eternità dietro un vessillo, per di più tormentato da vespe e mosconi.

Queste salvifiche concezioni forse avrebbero anche potuto evitare a Julian la terribile morte che si procurò dandosi in pasto ai maiali. Mi sto riferendo allo spettacolo teatrale Porcile, di Pasolini, nell’edizione tenutasi al teatro Argentina nello scorso dicembre. Julian non prende posizione, come dice il padre “non è né obbediente né disobbediente“, non sta con i capitalisti e nemmeno con chi protesta. Un ignavo con tutti i crismi insomma. L’ignavia però secondo me, in accordo con Sloterdjik, significa innanzitutto l’impossibilità di essere fondamentalisti.

Alla base del fondamentalismo delle tre grandi religioni monoteiste vi è il pensiero monovalente, basato su un linguaggio che non ammette negazioni,  che deriva però dalla possibilità, data dalla logica classica bivalente, che esse vi siano: un’asserzione può essere vera o falsa, tertium non datur.
Secondo il filosofo tedesco “Il pensiero diventa rigido non appena insiste sul fatto che, tra due istanze, solo una può essere quella giusta per noi… Il fanatismo ha la sua origine logica nel non contare oltre il numero uno, il quale non sopporta niente e nessuno accanto a sé. Questo Uno è la madre dell’intolleranza: secundum non datur.”[1] Ora, non voglio dire che Dante fosse un fondamentalista, si è detto che rispettava comunque chi si schierava dalla parte del male (anche se poi lo condannava alle pene eterne), ma il suo era il pensiero bivalente che aveva permesso la nascita del fanatismo. Tuttavia, l’invenzione del Purgatorio[2] – quel terzo luogo dinamico che permetteva di mantenere il controllo sui credenti rispettandone le accresciute esigenze terrene – mostra che tale pensiero già conteneva in nuce, la possibilità del passaggio a quello che per Sloterdjik è il farmaco contro gli estremismi: il pensiero polivalente.

Mentre la logica bivalente non dà altre alternative oltre al sì e al no, “il pensiero quotidiano ha trovato da sempre delle vie verso il tertium datur. Il procedimento universalmente adottato in questo ambito consiste nel togliere radicalità alle alternative: si metta qualcuno dinanzi a un aut aut che gli risulti sgradito e si vedrà come prima o poi questi si trasformerà il compito in un “sia-sia”… Un grigio che è liberazione dal peso di dover scegliere tra bianco e nero[3].

Ecco il primo farmaco che poteva salvare Julian: il pensiero quotidiano, non logico! Ciò che gli avrebbe permesso di passare dal né-né al sia-sia. Una sorta di ignavia positiva, che, secondo Lakoff, è peculiare del cervello umano. Con ignavia innanzitutto non si stiamo parlando di una visione del mondo moderata, o la ricerca della medietà in tutte le cose (tra l’altro Sloterdjik dà un duro giudizio sulla medietà, in Ira e Tempo, cap.4, la chiama “mostro informe”). Per Lakoff non esiste un “centro”, il nostro cervello ha la capacità di tenere insieme i poli contraddittori e usarli a seconda del contesto. Questa capacità è ciò che lui chiama biconcettualismo: “Biconceptualism makes sense from the perspective of the brain and the mechanism of neural computation. The progressive and conservative worldviews are mutually exclusive. But in a human brain, both can exist side by side…[4]. Le rigide opposizioni sono tali solo per il pensiero fondamentalista, monoconcettuale, compreso quello illuminista. D’altronde già Hegel si scagliò contro quella razionalità, per lui propria dell’intelletto, che non riesce a tenere insieme gli estremi; la ragione hegeliana è invece quella che riesce a comprendere e a concettualizzare tutte le istanze umane. Si può dire, in termini moderni, una ragione multiconcettuale.
Ecco, senza questo tipo di ragione il secondo farmaco, che già Spinoza aveva teorizzato, cioè tenere insieme ragione e passioni non può funzionare. Non è sufficiente dire si alla vita se questa non acquista senso, o meglio se non c’è una ragione aperta a tutti i significati possibili. Spinoza nel porcile però tiene conto della ragione di quel tempo, illuminista, ed esorta Julian ad abbandonarla, a seguire il suo impulso, le sue passioni, perché usare solo quella ragione avrebbe sempre favorito il più forte, il tecnocrate: “…una volta che, spiegato Dio, la Ragione ha esaurito il suo compito, deve negarsi: non deve restare che Dio, nient’altro che Dio[5] . Ma negare la ragione e spostarsi solo sul sentimento porta al rifiuto totale, all’azione del santo, sacrificale. Un’azione forse inizialmente necessaria, che dovrà costringere a cercare un’alternativa al mondo dato. In effetti Julian si poteva salvare con due farmaci che potevano essere prodotti solo dopo un’azione di rottura come la sua, condotta dalla sua ignavia; questi sono appunto la ragione multiconcettuale, attraverso la quale “imparare a guardarsi sempre con gli occhi degli altri con una serie di discipline vincolanti dal punto di vista interculturale: la cultura universale[6], e il dar voce alle passioni, cioè valorizzarle come motore della nostra Storia.


[1] Peter Sloterdjik, Il furore di Dio, Raffaello Cortina Editore Milano 2008, pagg. 94-95
[2] Se già i padri della chiesa si erano preoccupati circa un terzo luogo di espiazione dei peccati minori, fu solo nel XII secolo che un teologo parigino, tal Pietro Cantore, inserì nei suoi studi il purgatorio.
[3] Id., pagg. 111-112
[4] Lakoff G., Thinking points: Communicating Our American Values and Vision, cap.2, Paperback 2006
[5] Pasolini P.P., Porcile, in Pasolini Teatro, Mondadori, Milano 2001, pag. 636
[6] Sloterdjik P., Ira e tempo, Meltemi, 2008,  ultima pagina

Breve storia dell’ira, 1

3 novembre 2008
Breve storia dell’ira

 

Riprendiamo con una breve storia dell’ira. O meglio: con una breve storia della proscrizione dell’ira, del suo sparire dalle virtù e del suo entrare nel novero dei difetti e dei peccati. Della sua domesticazione, come la definisce Sloterdijk.
Innanzitutto, prima di considerarla una merce, l’ira è una passione e come tale soggiace alla condanna generale che la cultura in occidente come in oriente ha inflitto per millenni alle passioni, in quanto fattori di turbamento o di perdita temporanea o definitiva della ragione. Condanna caduta in prescrizione nel Novecento grazie a Freud, se proprio si deve fare un nome. Come capì Thomas Mann, dobbiamo infatti allo scopritore dell’analisi del profondo, prosecutore ideale dell’opera di Nietzsche, la possibilità di poterci occupare delle passioni senza passare per dei romantici o per cultori reazionari del mito. Dopo Freud, è pienamente legittimo inserire in uno stesso orizzonte di senso passioni e ragioni, non più divise su fronti opposti in un’arena che solo ammetta lo scontro tra le prime in quanto disordine, ombra e assenza di logica e le seconde, anzi: la seconda, la Ragione al singolare, in quanto logica, ordine, luce. Come dice Remo Bodei – che a questo tema da lunghi anni dedica importanti considerazioni -, “si potrebbe interpretare questo rapporto, semmai, quale conflittualità tra due logiche complementari, che operano secondo lo schema del ‘né con te, né senza di te” [1].
Non dobbiamo però certamente solo a Freud la considerazione moderna per le passioni e la loro riabilitazione. Si è già nominato Nietzsche, e se la sfera delle passioni è stata sdoganata appunto dal padre della psicoanalisi su di un piano, diciamo così, produttivo, già la filosofia in età moderna se ne era occupata da vicino e con grandissimo acume. Se ancora Kant le considerava un “cancro della ragione”, Descartes (soprattutto l’ultimo Descartes, quello de Le passioni dell’anima, 1649, l’anno precedente la sua morte) e Baruch Spinoza (per fare due nomi tra i più rilevanti) ne avevano però motivato ed apprezzato il ruolo. Spinoza rappresenta anzi il ponte tra le etiche tese all’autocontrollo e alla manipolazione politica delle passioni e quelle che lasciano il campo aperto all’incommensurabilità del desiderio. Se la complessità delle emozioni non viene più ricondotta all’espressione di un sistema non cognitivo e all’irrazionalità, allora diviene possibile individuare in esse, in un senso positivo, le radici ed i criteri di interi ambiti di esperienza e di condotta [2]: vedremo quanto ciò aiuti, per esempio, a comprendere la politica.
Le passioni sono peraltro da sempre coniugate al desiderio ed anche per questo motivo, fin dall’antichità classica, la loro dinamica è stata mortificata: la pleonexia,la brama di possesso, era il peccato mortale dell’etica classica. E non solo in Occidente: tre secoli prima della fondazione della Stoà, Lao-Tse aveva scritto nella Regola celeste: “Non c’è colpa maggiore, che indulgere alle voglie. Non c’è male maggiore che quello di non sapersi accontentare. Non c’è danno maggiore che nutrire bramosia d’acquisto”.
Oggi non è pensabile una geometria delle passioni costruita sulla specularità tra di esse e la ragione: “i due estremi (quello del dominio repressivo della ragione o della volontà sulle passioni e sui desideri e quello della loro ribellione e insubordinazione) rivelano una speculare connivenza sistemica e una sostanziale impraticabilità. Anche in questo primo senso, è caduta la ‘geometria delle passioni'”(Bodei).
Se per gli Antichi l’universo delle passioni è dunque, per sé preso, questionabile e in via generale condannabile, tra le passioni ve ne sono di migliori e di peggiori. Per quanto sia tra i sette vizi capitali, l’ira non è annoverata tra le peggiori, se Dante la rappresenta perfino in Paradiso, dove Pietro avvampa appunto d’ira e pronuncia parole di condanna nei confronti dei suoi successori alla guida della Chiesa, ricordandone i misfatti compiuti. Perfino in Paradiso, nel cosmo dantesco, hanno cittadinanza passioni accettabili, e tra queste appunto l’ira, in quanto volta al bene. Esiste infatti da millenni una distinzione tra un’ira che serviva – diciamo così – ed una invece che smuoveva le emozioni più basse dell’uomo, era condannabile ed anzi rientrava tra i peccati capitali, peraltro nei secoli diversi per numero e non canonizzati una volta per tutte.
[1] Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991, pag.11.
[2] Cfr. Tito Magri, Ridare cittadinanza alle emozioni, in Filosofia ed emozioni, a cura di Tito Magri, Feltrinelli, Milano 1999, pag. 10.

Affetti e affezioni

21 ottobre 2008
Baruch Spinoza

Baruch Spinoza

Usando una categoria spinoziana, definiremmo l’ira un’affezione, e non un affetto. Come ricorderete, nell’Etica è posta con grande attenzione questa differenza. L’affectus è la variazione continua della forza d’esistere di qualcuno, in quanto questa variazione è determinata dalle idee che ha. Le idee si succedono in noi, e seguendo questa successione di idee, la nostra potenza d’agire o la nostra forza d’esistere è aumentata o diminuita in maniera continua, su una linea continua, ed è questo quel che Spinoza definisce affectus, quel che chiamiamo esistere.
Il paradigma spinoziano consiste proprio nella metamorfosi delle passioni in affetti, senza però ridurre il peso di questi spegnendone l’energia, ma contenendo la tristitia, vero polo negativo dell’antropologia spinoziana, quel sentimento che altrimenti deprime la tensione verso il meglio e la vita.
Gli affetti non vengono intellettualizzati, sublimati, ma semplicemente privati della loro opacità. Tramutare le passioni in affetti significa quindi per Spinoza dire sì alla vita.

Gilles Deleuze

Gilles Deleuze

L’affezione, invece, è tutt’altro: dipende dall’incontro di corpi. Così Gilles Deleuze spiega questa riflessione spinoziana: “Come prima determinazione, un’affezione è: lo stato di un corpo in quanto subisce l’azione di un altro corpo. Cosa vuol dire? «Sento il sole su di me», oppure, «un raggio di sole si posa su di voi»; è un’affezione del vostro corpo. Cos’è un’affezione del vostro corpo? Non il sole, ma l’azione del sole o l’effetto del sole su di voi. In altri termini, un effetto, o l’azione che un corpo produce su un altro, una volta detto che Spinoza, per ragioni [che derivano] dalla sua fisica, non crede ad un’azione a distanza – l’azione implica sempre un contatto -, ebbene è una miscela di corpi. L’affectio è una miscela di due corpi, un corpo che è detto agire sull’altro, e l’altro raccogliere la traccia del primo. Ogni miscela di corpi sarà chiamato affezione”[1].
Nell’Iliade l’ira di Achille  nasce proprio dallo scontro di due soggetti prima (Achille e Agamennone), e poi dal confronto-scontro tra il figlio di Peleo e tutta la comunità dei Greci, incapace di interpretare il motivo della sua ira. Questa, insomma, è un fattore dello scambio intersoggettivo, scoppia – avrebbe detto Spinoza – a causa dell’azione di un corpo (di un soggetto) su di un altro corpo: “Spinoza dice che il male – non è difficile – il male è un cattivo incontro. Incontrare un corpo che si miscela male col vostro. Miscelarsi male, vuol dire miscelarsi in condizioni tali che uno dei vostri rapporti subordinati o che il vostro rapporto costituente è o minacciato, o compromesso, oppure addirittura distrutto”[2].


[1] Gilles Deleuze, Spinoza, corso a Vincennes, ora online, 24 gennaio 1978.
[2] ibidem

Spinoza nel Porcile

3 settembre 2008

 

Una delle opere teatrali più controverse di Pier Paolo Pasolini è senza dubbio Porcile. Si tratta di un dramma teatrale, pubblicato nel 1968, dal quale Pasolini trasse anche un film uscito poi tra gli strepiti della censura l’anno successivo.
Nel decimo episodio della versione teatrale, Pasolini fa incontrare in sogno Julian – il protagonista principale – e Spinoza. Sì, Spinoza il filosofo. Si tratta di un incontro e di un colloquio rilevanti, perché nella tragedia teatrale la presenza e le parole di Spinoza danno alla morte di Julian un significato che nel film non è altrettanto chiaro. Nel film, infatti, Spinoza non compare.
L’opera è divisa in due episodi, o in due parti, continuamente intrecciate. Nella prima, si racconta di un cannibale, prima, e poi di un gruppo di cannibali che – su di un vulcano – attaccano e divorano gli Altri. Fino alla sconfitta, ovviamente: la trasgressione non paga fino in fondo. Il secondo episodio è la storia di una famiglia di industriali tedeschi – i Klotz – nella Germania del secondo dopoguerra. Il padre-padrone finisce con l’allearsi col suo maggior concorrente (nel film, Ugo Tognazzi), mentre il figlio Julian (interpretato da Jean-Pierre Léaud, l’attore simbolo della nouvelle vague) non riuscirà ad amare che dei maiali, fino a farsi sbranare da loro.

PPP ai tempi di Porcile

PPP ai tempi di Porcile

Nel dramma teatrale le parole di Spinoza aiutano ad illuminare il senso dell’atto di Julian di sacrificarsi ai maiali. Spinoza viene scelto da Pasolini proprio perché si è occupato del rapporto tra ragione e passioni. Il filosofo borghese Spinoza si rivolge al borghese Julian con una mozione degli affetti e lo invita a tornare in seno alla famiglia, alla società, poiché razionalmente solo quello è il luogo dove è possibile «la libertà dell’eresia e della rivoluzione». Occorre far parlare ragioni e passioni. Altrimenti, come per il santo eremita cannibale dell’altro episodio, non resta che il sacrificio, l’atto di sentimento, passionale, corporeo: quell’atto che si sta accingendo a compiere Julian dandosi in pasto ai maiali, e che il personaggio Spinoza assimila alle azioni dei santi che «hanno predicato / senza dire una parola – col silenzio, / con l’azione, con il sangue, con la morte»[1].
Uno Spinoza che assomiglia via via sempre di più al Pasolini degli anni Sessanta spiega a Julian che “se il terreno di confronto è la mera Ragione, la Ragione avalla sempre il diritto del più forte […]. Dal dominio totalitario della Ragione tecnocratica ci si libera solo attraverso il recupero del sacro, dell’Altro. È solo la pura vita, ciò che è prima e dopo dei gesti e delle parole, a poter superare il totalitarismo tecnocratico, vita a cui il senso appartiene da sempre”[2].
La vita informa ragione e sentimenti e ne costituisce lo sfondo ineliminabile, la Terra.


[1] Matteo Gilebbi. Orgia di parole. Suggestioni su ritualità e linguaggio in Pier Paolo Pasolini, University of Wisconsin-Madison, Spring 2007, pag. 18, https://mywebspace.wisc.edu/gilebbi/web/Papers/Pasolini_Orgia_parole_paper2007.pdf

[2] Serafino Murri. Pier Paolo Pasolini, Editrice Il Castoro srl, Milano, pag. 112.