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Menis e riconoscimento

11 novembre 2008

Anche l’ira, pettinata dalla razionalità, rientra nei discorsi – diviene un affetto, avrebbe detto Spinoza. E diviene quell’ira che Aristotele può definire legittima, proprio perché “ha un orecchio per la ragione”[1]. Anzi, spesso l’ira scoppia a ragione: il più delle volte scoppia a causa di un mancato riconoscimento. Il sentimento del riconoscimento è quindi a monte dell’ira. Il soggetto desidera essere riconosciuto e se ciò non avviene, allora subentra la malinconia oppure, nel caso il mancato riconoscimento si configuri come sensazione di un torto subìto, scoppia l’ira. Il che è evidente già nell’Iliade.

Torniamo all’inizio del poema omerico. I venti canti iniziali, una gran parte del poema, descrivono gli scoppi d’ira di alcuni personaggi centrali e le conseguenze disastrose di questi accessi. Ma è un’ira che sa sempre d’indignazione, e questa è provocata da un mancato riconoscimento.
Mēnis prova Zeus, per il rapimento di Elena. E’ mēnis quella di Apollo per la mancata restituzione della schiava Criseide da parte di Agamennone, figlia di Crise, sacerdote d’Apollo. Mēnis, infine, e della peggiore, è quella di Achille, adirato perché Agamennone ha sì restituito Criseide al padre, ma gli ha sottratto Briseide, la sua concubina preferita, con un atto intollerabile d’arbitrio. La figlia di Brise non è un normale bottino di guerra: è un geras, un dono prezioso ed esclusivo che i compagni di Achille gli hanno fatto per sancire e onorare la superiorità sul campo del re di Ftia. Briseide, dunque, è il simbolo stesso dell’onore di Achille[2].

Ebbene, tutti sentono di aver subìto un torto. Attenzione: non è detto che il torto sia reale, ma certo lo è il sentimento. Zeus è irato perché Elena è stata tolta illegittimamente al re Menelao; Apollo è legittimamente infuriato con i Greci, e ne fa strage con la pestilenza, perché Agamennone – il capo dei capi – ha sottratto Criseide al suo sacerdote; Agamennone stesso si sente defraudato di un diritto, quello del capo d’impossessarsi di chiunque egli voglia rifacendosi sui suoi sottoposti, servendosi e strappando Briseide ad Achille. Questi, il più forte e valoroso, ma non il più importante tra gli Achei (principe di Ftia, una terra insignificante; oggi la diremmo in Tessaglia, vicino alle Meteore insomma), sente di non esser più riconosciuto da Agamennone in quanto primo fra gli Achei. Achille non si è sentito riconosciuto, ed in più ciò è avvenuto in concomitanza di un torto palese subìto in pubblico. E divampa la sua ira. Solo il pubblico riconoscimento stabilisce in ultimo il valore di un guerriero: e Agamennone toglie ad Achille ciò che attesta la sua forza ed il suo onore: la sua donna, la prova pubblica del suo valore. Perdere Briseide -“simile alla dorata Afrodite” – significa perdere l’onore: Achille ne viene deprivato pubblicamente dinnanzi a tutto il popolo acheo che gli aveva lasciato predare Briseide a Lirnesso proprio come dono d’onore. Per quest’offesa grave, l’eroe si allontana. E solo riparata l’offesa potrà tornare a combattere. Com’è noto, non basterà però che Agamennone riconosca il proprio torto e cerchi di riparare con doni e restituendo la preferita, giurando peraltro di non averla toccata – con un’azione dunque erotica, economica. Fino al canto IX, Achille è – per così dire – dalla parte della ragione, nel senso che la sua ira è spiegabile e ogni greco può comprenderla. Poi, il suo rifiuto di conciliarsi non accettando i doni di Agamennone lo pone in una condizione insostenibile e l’aristos diverrà per i compagni l’agrios, il selvaggio, l’irriconoscibile. Solo la morte di Patroclo reinserisce Achille nella comunità. Dal dolore, però, nasce una nuova ira: non più menis, ma cholos, cioè collera – un’ira privata, una rabbia di pancia, che è tutt’uno con l’ansia di vendetta che si fa furia selvaggia. Siamo al “secondo tempo dell’ira”, com’è stato definito[3], un tempo che coinvolge uomini divinità ed elementi naturali: Achille fa strage dei nemici, gli dei combattono tra di loro, un dio-fuoco lotta con un dio-fiume, tutto è travolto da un’immensa ira insensata. Fino alla catastrofe[4].


[1] Aristotele, Etica Nicomachea, 7, 7.

[2] Antonio Fichera, Breve storia della vendetta, Castelvecchi, Roma 2004, pag. 25.

[3] Maria Grazia Ciani, I giorni dell’ira, in Omero, L’ira di Achille (Iliade I), a cura di MG Ciani, Marsilio Editori, Venezia 1988, pag. 25.

[4] Inutile notare che questa movenza diviene un topos centrale della nostra cultura, ma è presente anche nella cultura orientale, per esempio in Giappone. Un precipitato ultimo dell’ira dell’eroe è la saga di John Rambo, per esempio. John non viene riconosciuto per quello che è: per un soldato che ha combattuto per il proprio Paese, anzi gli si reca offesa. E l’ira del reduce diviene nemesi, onda d’urto che sommerge e spazza chi gli si frappone ad ostacolo. Finché la parola del Capo non spezza l’isolamento dell’irato, domesticando la sua ira e volgendola al Bene – cioè piegandola a valore d’uso per colpire altri Nemici.

L’ira di Achille

21 ottobre 2008

Achille è ancora nelle sue tende. È infuriato per l’affronto subìto da Agamennone e dalla mancata riparazione del danno. Il suo orgoglio è ferito a morte. L’ira quasi lo paralizza, e intanto lo sottrae alla mischia, al campo di battaglia. Omero lo coglie in questo stato d’animo, ed è da questo momento in poi che vorrebbe ritrarlo, chiedendo alla Dea un aiuto per trovare le parole per dire quell’ira.

Ora, provate a chiedere ad un passante di mezza età come comincia l’Iliade. Se non vi manderà a quel paese, vi reciterà questi versi, più o meno:

“Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta, che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,”

e qui forse si fermerà, perché diviene più difficile ricordare. Per l’italiano medio di una certa età, questa è La Traduzione dell’Iliade. Stop. La traduzione di Vincenzo Monti, quella canonica. Anche se Monti non sapeva il greco. Ugo Foscolo, che lo conosceva, infatti tradusse diversamente quei primi versi famosi. Così:

“L’Ira, o Dea, canta del Pelìde Achille
che orrenda in mille guai trasse gli Achei
e molte forti a Pluto alme d’eroi
spinse anzi tempo, abbandonando i corpi
preda a sbranarsi a’ cani ed agli augelli”.

Molto più potente e drammatica, nonostante gli augelli. E più rispettosa del greco e del senso, poiché appunto l’ira è la prima parola del poema ed è lì, su quella breve parola che cade l’accento. Il che poi è rimasto nelle versioni in versi liberi di Rosa Calzecchi Onesti ed in prosa di Maria Grazia Ciani. Fino a Baricco, che espunge gli dèi dall’Iliade, ritenendoli inutili, e che però incassa più di tutti i traduttori con la sua lettura integrale del poema e l’edizione Feltrinelli[1]. Insomma, se è vero che tradurre è tradire, c’è modo e modo di farlo: ed in questo caso, rispettare la posizione assiologica che l’ira ha nel primo canto dell’Iliade ci pare determinante[2].


[1] Negli Stati Uniti, invece, l’operazione non è andata a buon fine: già sul “New York Times” la traduzione inglese del testo di Baricco (che poi di Baricco non è, ma della Ciani), edita da Alfred A. Knopf, è stata stroncata.

[2] Devo la ricostruzione delle diverse traduzioni dell’Iliade al godibilissimo La malinconia del traduttore di Franco Nasi, , Edizioni Medusa, Milano 2008, pag. 39 e segg.

La prima parola dell’Occidente

21 ottobre 2008

Barnett-Newman, 1952

Barnett-Newman, Ira di Achille, 1952

“All’inizio della prima frase della tradizione europea, nel verso di apertura dell’Iliade, emerge, fatale e solenne come un appello che non tollera obiezioni, la parola ‘ira’. Il nome è in accusativo come si conviene all’oggetto ben definito di una frase. ‘L’ira celebro, o Dea, di Achille, del Pelide (…)’”. Ecco, quindi: nell’Occidente antico ogni cosa iniziò con lei, l’ira.
Il che è naturale, secondo Sloterdijk, essendo l’ira «la forza fondamentale nell’ecosistema degli affetti» che anima i corpi e le menti degli europei sino, appunto, dall’Iliade. Nel corso della modernità, prima il cristianesimo, poi il comunismo, sarebbero riusciti a canalizzarla, trasformandola in energia spirituale e politica. Cristianesimo e comunismo avrebbero così aperto una serie di banche in grado di raccogliere l’ira coltivata dagli scontenti, assegnandole un valore di redenzione politica capace di rompere il cerchio dell’oppressione e di garantire una salvezza in questo o nell’altro mondo. 

Peraltro, il filosofo tedesco non è stato il primo a rimarcare questo esordio timotico della cultura europea: già Watkins (1987) ed altri lo avevano sottolineato, segnalava Remo Bodei già diversi anni fa[1].
Torniamo a quell’inizio nella piana di Troia, narrato dal poeta. Per quei casi in cui oggi si fa appello ai terapeuti o si cerca il numero della polizia, gli iniziati di allora si rivolgevano al mondo ultraterreno (vai a vedere se con minore fortuna…). Omero chiede alla divinità di legittimare il suo ricordo del sentimento che s’impadronì dell’eroe degli Achei ad un certo punto della guerra di Troia. Il poema, nella versione più antica nota ad Aristosseno, iniziava sì con l’ira, ma di Apollo, non di Achille. L’ira di Apollo fungeva da ponte tra l’ira di Zeus ricorrente nel mondo esiodeo e l’ira di Achille, pienamente omerica[2]. L’ira di Achille è, in effetti, l’ira di un uomo. La parola per dire quel sentimento è mēnis, in questo contesto traducibile con ira:

 

Menin aiede, thea, Peleiadeo Achileos
Oulomenen, he myri Achaios alge eteke (…).
[L’ira cantami, o dea, di Achille figlio di Peleo, l’ira funesta che ha inflitto agli Achei infiniti dolori, che tante anime forti ha gettato nell’Ade (…)].

Nella edizione classica a noi pervenuta, la mēnis umana di Achille è parallela all’ira divina di Apollo che decima con la peste l’esercito greco. Notiamo subito che Omero non desidera ricordare, descrivere e tramandare soltanto il sentimento di Achille, ma anche le conseguenze terribili che da quella passione derivarono: l’ira e le sue conseguenze. Ricorderete, quale anno fa, il film di Paolo Sorrentino Le conseguenze dell’amore? Ecco, le conseguenze, non l’amore stesso. Ciò che dalla passione viene innescato, le storie che ne nascono. Quindi, ira e tempo.
Quale ira? Mēnis è qui l’ira figlia dell’indignazione. Come vedremo, Omero spiega che, allorquando Achille rifiuterà i doni che Agamennone gli invia in riparazione, la sua legittima mēnis diventerà infatti qualcos’altro, cholos – cioè bile, umano rancore che avvelena l’animo. L’ira di cui qui si parla non è semplice collera: ha valore sacrale, numinoso. Secondo alcuni interpreti, non esprime l’irruzione dell’irrazionalità, quanto “il dilagare di una potenza generativa. Essa ha carattere essenzialmente morfogenetico. Produce, genera, conferisce forma”[3].
Agli esordi della tradizione culturale occidentale, viene dunque evocata una passione timotica, una passione-contro, l’ira. Che fa parte quindi di una costellazione di sentimenti distinta e diversa da quella dei sentimenti erotici, delle passioni-per. L’ira fa piuttosto parte della famiglia cui appartengono odio, melanconia, rabbia, rancore, risentimento, ma anche orgoglio, gloria, indignazione, autostima, amour propre, desiderio di riconoscimento – comunque atteggiamenti, disposizioni d’animo e comportamenti associabili appunto al thymós, termine molto complesso che indica il cuore (non l’organo, cardie, ma la sede delle passioni appunto), il principio della vitalità, e per estensione, la disposizione dell’anima a reagire energicamente, ad accendersi e quindi, in senso lato, l’ira[4].
Sentimenti forti e rilevanti, ai quali però – nell’ambito delle descrizioni psicologiche novecentesche che definiscono la natura dell’uomo – sarebbe stato riservato uno spazio relativo, poiché l’attenzione – almeno a partire dall’opera di Sigmund Freud – si sarebbe concentrata di più sulla disposizione erotica dell’individuo, nei suoi rapporti con gli altri e con il mondo.
Ira e tempo di Sloterdijk parte proprio da qui, da un presunto misconoscimento; ricostruendo l’evoluzione nella storia dell’Occidente di questa particolare passione, che per venire correttamente intesa deve essere osservata però nella relazione che intrattiene con il tempo. Nonostante sembri infatti una passione declinata al presente, all’esplosività e alla dispersione subitanea di energia, l’ira svela in realtà la sua natura e il suo ruolo politico solo se la si osserva proiettata all’indietro o in avanti nella dimensione temporale. In altri termini, è possibile cogliere la sua rilevanza sociale solo se la si osserva in rapporto con il passato e, soprattutto, con il futuro. Da subito, l’ira ha a che fare con l’intersoggettività, e già nell’Iliade si apprezza il suo rapporto stretto con il mondo delle regole sociali, particolarmente con le regole dello scambio interpersonale[5].
 
 
 

 


[1] Remo Bodei. Geometria delle passioni, cit., pag. 189 e segg.

[2] Omerica certo, ma quasi confinata nell’Iliade, poiché dell’ira – in questi termini – nell’Odissea quasi non vi è traccia. Su questo aspetto insiste molto Leonard Charles Muellner nel suo The Anger of Achilles: Menis in Greek Epic, Cornell University Press, 2005, in particolare vedi pag. 96 e segg.

[3] Cfr. Umberto Curi, Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Edizioni Dedalo, 1999, pag. 13.

[4] Nelle Rime, parte seconda, XXV, Dante canta: “Un dì si venne a me Malinconia e disse: «Io voglio un poco stare teco»; e parve a me ch’ella menasse seco Dolore e Ira per sua compagnia”.

[5] Anche su questo aspetto insiste molto Muellner, op. cit.