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Riconoscimento e desiderio

11 novembre 2008

Ira e tempo rende ad Hegel ciò che è di Hegel: perché si deve all’autore della Fenomenologia dello spirito la scoperta della decisività di questa riflessione morale dell’uno nell’altro, richiamando con perspicacia unica l’attenzione su una potentissima fonte di soddisfazione, o di fantasie di soddisfazione: “sul campo della lotta per il riconoscimento, l’uomo diventa quell’animale surreale che rischia la sua vita per dei brandelli colorati, per una bandiera, per una coppa”[1]. La lotta a morte per il puro prestigio, come Hegel definisce il primo gradino dell’autocoscienza, la sfida tra pari, è un tassello importante nel processo d’identificazione personale. Il servo, colui che ha paura della morte, l’apprende vivendo a contatto col signore, con colui che non ha paura. Anche in questo caso, la movenza dialettica tipica del pensare hegeliano ci soccorre, mostrando come la coscienza servile non riesca ad emanciparsi senza assumersi parte della tracotanza signorile. Se ne assume la sostanza, cioè l’habitus per cui il desiderio di riscatto è più forte della paura e strappa quindi il servo all’humilitas della quale pure è impastato. Ma il servo, quando sfamerà il signore e lo saprà, cioè diverrà consapevole della decisività del proprio operare finito per la propria e altrui sopravvivenza, manterrà beninteso quel legame profondo e basso con la naturalità, con la paura e con la morte, superando così la fase narcisistica del signore. In ultimo, il momento signorile della lotta per il puro prestigio resterà nella memoria di carne del servo-padrone. Giacché – come sostengo da  tempo – servo e signore non sono due figure separate, due coscienze opposte, ma due funzioni ancipiti della stessa coscienza umana, ora serva ora signorile.
Sarebbe meglio dunque, aggiunge Sloterdijk, occuparsi del riconoscimento come sentimento essenziale per le relazioni intertimotiche. La stessa intersoggettività (a cui questo stesso insegnamento è dedicato) dovrebbe ripensarsi, considerando i rapporti umani non soltanto in una chiave psicoanalitica (cioè erotico-dinamica, per dirla con Sloterdijk), ma anche alla luce del peso che nelle relazioni hanno le ambizioni. Come aveva già capito Platone, da leggersi sempre di nuovo non solo come erotologo e autore del Simposio, ma anche come psicologo dell’autostima. E qui Sloterdijk elogia Francis Fukuyama in quanto autore di uno “dei più migliori riassunti dei discorsi antichi e nuovi sul thymos, nelle sezioni più ricche di idee di quel bestseller non letto che è La fine della storia”[2]. E’ il Platone del IV libro della Repubblica ad essere valorizzato, per la sua considerazione del thymos come della capacità di mettere la persona contro se stessa; la capacità, o meglio la virtualità, la potenzialità di ciascuno a soddisfare le proprie pretese: la scoperta di Platone consisterebbe “nel richiamare il significato morale dell’autoriprovazione violenta”: solo chi riesce a biasimare se stesso è sulla strada dell’autonomia e potrà autoguidarsi. Certo, in questo modo Platone mette una pietra miliare sulla strada della domesticazione morale dell’ira: i moti dell’animo ottengono cittadinanza nella città dei filosofi.


[1] Peter Sloterdijk, Ira e tempo, cit., pag. 31.

[2] Ivi, pag. 32.

Ira e thymos

3 novembre 2008

La questione del tyhmos trova la sua prima sistematizzazione nella dottrina platonica. Al mito narrato nel Fedro della biga alata e dell’auriga [1] è rimessa la prima significativa rappresentazione della natura umana, nella quale sia possibile individuare la funzione dell’aggressività e dell’ira nell’economia del comportamento umano. Il logos è l’auriga, il conduttore della biga, in grado di condurre verso l’alto l’elemento animale rappresentato dall’anima irascibile, simboleggiata dal cavallo bianco, mentre l’anima concupiscibile, simboleggiata dal cavallo nero, rende difficile e faticosa la guida del carro. Il cavallo nero, l’epithymetikon, tira insomma verso il basso, verso i desideri ribelli, ed a stento l’auriga riesce ad imporre la sua logokratia.
L’anima irascibile (il cavallo bianco) è come “neutrale” tra la parte razionale e quella concupiscibile e può allearsi con l’una e con l’altra parte. In altri termini, nel Fedro l’aggressività (della quale l’ira ancipite, dai due volti, costituisce il motore) non è giudicata negativamente tout court come la concupiscenza, perché se guidata dalla ragione può cooperare con essa al raggiungimento di fini positivi per la natura umana.
Questo aspetto è sviluppato nel libro IX della Repubblica, dove la parte irascibile dell’anima è definita come quella “che aspira tutta e sempre a dominare e vincere e ottenere buona fama”. La strategia di Platone intende quindi valorizzare la parte irascibile dell’anima, intesa come disposizione permanente dell’uomo ad agire volitivamente e risolutamente: ad essa viene attribuito il ruolo di radice ultima del coraggio, che nella scala di valori platonica, rappresenta, dopo le virtù intellettuali, la massima tra le virtù pratiche, quelle virtù che Aristotele definisce virtù etiche. Proprio il coraggio diverso rendeva già in Platone l’ilota migliore del “fante di marina”, perché l’ilota non ha altro che il proprio coraggio da gettare nella lotta, mentre il marinaio può farsi aiutare dalla tecnica, dal saper manovrare la barca.
 L’elemento della “buona fama” entra quindi come correlato dell’ira fin da Platone. È la prima traccia di quel desiderio di riconoscimento che Hegel piazzerà al centro della sua antropologia filosofica. L’aspirazione a godere di buona stampa, insomma: a valere in quanto individuo riconoscibile, ha a che fare quindi con l’ordine timotico delle passioni già in Platone.

Veniamo rapidamente ad Aristotele. Che scrive nell’Etica nicomachea (5. Le virtù sono disposizioni dell’anima):

«Dopo di ciò bisogna esaminare che cos’è la virtù. Poiché, dunque, gli atteggiamenti interni all’anima sono tre, passioni capacità disposizioni, la virtù deve essere uno di questi. Chiamo passioni il desiderio, l’ira, la paura, la temerarietà, l’invidia, la gioia, l’amicizia, l’odio, la brama, la gelosia, la pietà, e in generale tutto ciò cui segue piacere o dolore. Chiamo, invece, capacità ciò per cui si dice che noi possiamo provare delle passioni, per esempio, ciò per cui abbiamo la possibilità di adirarci o di addolorarci o di sentir pietà. Disposizioni, infine, quelle per cui ci comportiamo bene o male in rapporto alle passioni: per esempio, in rapporto all’ira, se ci adiriamo violentemente o debolmente ci comportiamo male, se invece teniamo una via di mezzo ci comportiamo bene. E similmente anche in rapporto alle altre passioni. Passioni, dunque, non sono né le virtù né i vizi, perché non è per le passioni che siamo chiamati uomini di valore o miserabili, bensì per le virtù ed i vizi, e perché non è per le passioni che siamo lodati e biasimati (infatti non si loda né chi prova paura né chi si adira, né si biasima chi semplicemente si adira, ma chi si adira in un certo modo), mentre siamo lodati o biasimati per le virtù ed i vizi. Inoltre, ci adiriamo o proviamo paura senza una scelta, mentre le virtù sono un certo tipo di scelta o non sono senza una scelta. Oltre a questo si dice che siamo mossi secondo le passioni, ma che secondo le virtù ed i vizi non siamo mossi, ma posti in una certa disposizione. Perciò essi non sono neppure delle capacità. Infatti non siamo chiamati buoni o cattivi, né siamo lodati o biasimati per il semplice fatto di poter provare delle passioni; inoltre, abbiamo per natura la capacità di esserlo, ma non diventiamo buoni o cattivi per natura: abbiamo parlato di questo prima. Se dunque le virtù non sono né passionicapacità, rimane che siano delle disposizioni. Ciò che è la virtù dal punto di vista del genere, è stato detto».

Per lo Stagirita, l’ira dunque è senz’altro una passione. Ma, per sé presa, non è buona né cattiva. Lo diviene, se la pieghiamo a strumento della nostra virtù o del nostro vizio: dipende dalla nostra disposizione, e riguardo all’ira in particolare – dice Aristotele – conviene che la nostra disposizione ci tenga lontani dagli estremi, dall’adirarsi violentemente o debolmente.
L’importante, comunque, è non farsene guidare: “L’ira è necessaria, né si può fare nessuna conquista senza di lei, senza che essa empia l’animo e accenda gli spiriti: ma bisogna adoprarla non come condottiero, ma come soldato”. Se diviene una pedina, se riusciamo a volgerne la forza a nostro vantaggio, l’ira si svela un’alleata preziosa.

Occorre inoltre tener conto di una distinzione. La menis greca comprende sia l’ira propriamente detta, sia il furore. Quest’ultima passione ne è la versione più universale, più neutrale – in senso platonico, e ne costituisce anche l’innesco. È quel fervore, il furor latino, quella spinta che muove Dio ed il mondo, spinta che può imbronciarsi ed assumere connotati negativi e neganti. Siamo sempre nell’universo timotico, ma il furore di Dio (il Gotteseifer del recente volume di Sloterdijk, pubblicato in questi giorni dalla Raffaello Cortina Editore) va ben distinto da quel Zorn Gottes, da quell’ira divina che precipita il diluvio sulla terra e sulle sue creature.

[1] Platone, Fedro, 246 a – 249 b.

Tempo e thymos

21 ottobre 2008

Sembrerebbe che la mēnis, in quanto affezione, abbia un che di puntuale, di temporalmente circoscritto: attenzione, l’irato non è il collerico. Mentre quest’ultimo è un carattere che fa parte dei quattro principali temperamenti per gli antichi (insieme al melanconico, al flemmatico ed al sanguigno), non così chi è preso dall’ira. Per la maggioranza della letteratura fisiologica degli antichi, Galeno in testa, il temperamento collerico dipende dal prevalere in un individuo della bile gialla. C’è dunque una determinante fisica alla base della collera, mentre così non è per l’ira in quanto mēnis [1].

Da dove nasce dunque l’ira? Qual è il suo organo di raccolta? La parola greca per l’organo da cui parte il grande ribollimento nel petto di eroi e uomini è thymós. Nel linguaggio italiano corrente, il termine timia designa l’umore: per esempio, un ciclotimico è un individuo dall’umore mutevole.
La mēnis, dunque, è una passione eminentemente timotica. Per Eraclito, la sua forza ne fa un combattente difficile da sconfiggersi: è difficile lottare contro il proprio thymos, contro il proprio cuore, perché ciò che esso vuole è disposto a pagarlo a prezzo dell’anima[2].
Per millenni resta al cuore – è il caso di dirlo – della personalità multipla dell’uomo greco; fino a sparire poi gradualmente dalla lista dei carismi. Col tempo, resteranno solo gli entusiasmi spirituali ricordati nel Fedro da Platone, in una sorta di compendio delle ossessioni benefiche, come la scienza medica illuminata, il dono della profezia ed il canto appassionante concesso dalle Muse. Nella Repubblica, thymos è la virtù specifica dei guerrieri che regola l’impulsività, mentre nel Timeo è la passione quando è incontrollata, incapace di ascoltare gli insegnamenti della ragione. Platone, invero, inserisce un nuovo tipo di entusiasmo: la mania di guardare le idee, su cui poggerà la filosofia. Con un gioco di parole (Sloterdijk ne fa grande uso), questo passaggio decisivo per le sorti dell’antropologia filosofica occidentale e del suo oggetto, “la psiche ‘maniaca’ [manische], illuminata da esercizi logici, si allontana definitivamente dai suoi inizi ‘menici’ [menischen]. Ha inizio così l’espulsione dalla cultura della grande ira”. Entriamo così nell’era della domesticazione dell’ira.


[1] Il testo di riferimento per queste problematiche resta Saturno e la melanconia, di R .Klibansky, E. Panofsky e F. Saxl, ed.it., Einaudi, Torino 1983.

[2] Eraclito, 14 [A 116] Colli, 22 B 85 DK.