La questione dell’ira di Dio, da un punto di vista teologico, non è affatto semplice. E continua ad interessare anche la teologia contemporanea[1]. Sloterdijk invece, nel testo di cui ci occupiamo, non è tanto interessato alle riflessioni teologiche sull’ira, in fondo “pseudo argomenti di importanza esclusivamente psicostorica”. Diversa però è la valutazione della loro rilevanza per comprendere le modalità di creazione del mondo dell’homo hierarchicus, della psicologia della schiavitù volontaria, della dinamica mentale del masochismo ontologico, dell’economia del risentimento. Insomma, delle pratiche costitutive di quella gigantesca e potente banca trascendentale dell’ira nella quale sono stati versati per secoli impulsi umani timotici e progetti rinviati di vendetta che sono le religioni: “Il Dio iroso non è nient’altro che l’amministratore di quei depositi terreni di risentimento che sono custoditi in lui stesso e presso il suo subordinato executive diabolico, per essere pronti a un successivo prelievo”.
Parlando dell’ ira di Dio, si parla necessariamente anche della Storia. Con un’espressione a effetto assai calzante, Sloterdijk fa notare infatti che “la storia degli uomini è un sinonimo esteso di ciò che irrita Dio”, che quindi nella Storia mostra da sempre la sua ira[2]. La memoria dell’ira di Dio disegna i contorni della Storia; rammemorando gli eccessi d’ira di Yahve, gli Ebrei si sono costituiti in popolo ed hanno potuto allacciare i fili delle loro vicende.
Morto Dio, o messolo da parte, e ritraducendo nel tempo la sua ira – ora governata però da una regìa umana – si otterrà la Storia rivoluzionaria: nella modernità, vendetta ed immanenza si sono uniti sotto il segno della Rivoluzione. Di questa Storia Sloterdijk parla nella terza parte di Ira e tempo, intitolata La rivoluzione timotica.
Derrida, ripreso da Sloterdijk e citato da molti, ha scritto che la quale “la guerra per l'”appropriazione di Gerusalemme” è oggi la guerra mondiale. Ha luogo dappertutto, è il mondo, è oggi la figura singolare del suo essere out of joint“[3]. Non si deve per forza esser d’accordo con Huntington per valutare l’importanza di quel clash of monotheisms che ricorrentemente esplode da 1300 anni a questa parte, in una combinazione dodecamorfica: cristiani vs ebrei, cristiani vs musulmani, musulmani vs ebrei, musulmani e cristiani vs ebrei, musulmani ed ebrei vs cristiani, e così via fino alle dodici combinazioni possibili. Che diventano molti di più, se vi si aggiungono i conflitti intramonoteistici, spesso altrettanto virulenti: cattolici vs riformati, sunniti vs sciiti, ebrei ortodossi vs liberali. La secolarizzazione, fenomeno globalizzato fino ad un certo punto, non sembra aver messo un freno ai conflitti, anzi: si potrebbe sostenere che anche se “i conflitti intermonoteistici ed intramonoteistici abbiano già richiesto fin troppe vittime”, “se si studiano le possibilità di scontro tra le religione menzionate […] si noterà come la realtà storica resti largamente indietro rispetto alle possibilità del copione”[4]. Eventualità facilitata dal fatto che, tutte e tre le religioni monoteistiche, proprio a causa delle loro iniziali condizioni polemiche, possono essere definite – secondo il Preside di Karlsruhe – come “religioni al fronte“, nel senso che in ognuna sarebbe insito un certo habitus mentale di “presa del mondo”, per dirla con Carl Schmitt. Che parlando dell’ira di Dio si parli ancora della Storia lo si deve anche ad un’intuizione di Habitus particolarissimo quello dell’Ebraismo, per il quale non avrebbe senso parlare di una disposizione all’attacco, diciamo così, nei termini di una campagna di guerra mirante al proselitismo ed all’espansionismo; mentre può considerarsi anch’essa una religione al fronte nei termini di una lotta per l’autoconservazione. L’ebraismo infatti è la religione di un popolo che resta tale e che bada a non contaminarsi, nonostante la diaspora plurimillenaria. Lotta per l’autoconservazione che sconta un paradosso noto dell’Ebraismo e che Sloterdijk richiama: il fatto che un Dio universale sia “specializzato” su un unico popolo, su una ristretta stirpe di eletti. Come può l’Unico Dio essere il Dio solo di una ristrettissima minoranza umana?
Il paradosso divine una sfida raccolta da Saulo/Paolo che strappa il velo del privilegio ad un popolo solo, a vantaggio di una comunità davvero universale, la cui parentela sarà data dall’essere tutti fratelli in Cristo, e non più in un vincolo di sangue: “il colpo di genio paolino trasferisce l’Alleanza con Dio a un nuovo popolo, a cui sono ‘chiamati’ i fedeli di tutti i popoli: questa nuova collettività si chiamerà pertanto ekklesia, o Nuovo Israele”[5].
Se per l’ebraismo occorre quindi introdurre dei distinguo in merito alla sua vocazione espansionistica, non così per il nuovo monoteismo lanciato dall’Apostolo delle genti.

la croce fiammeggiante del Ku-Klux-Klan
Tuttavia Sloterdijk è tra chi, come Hegel, ritiene che non siano state le Crociate l’episodio clou della guerra cristiana, tanto che ancora si discute sul loro carattere di guerra offensiva oppure di reazione, o “preventiva” nella definizione di Wolfowitz: tra l’undicesimo ed il tredicesimo secolo, l’Islam era ancora in una fase di espansione, politica e commerciale, alla quale l’Europa avrebbe reagito, coniugando primarie ragioni di carattere economico al motivo religioso-simbolico della riconquista del Santo Sepolcro. Secondo Sloterdijk, le più imponenti campagne espansionistiche del Cristianesimo appartengono piuttosto all’epoca post-medievale. Al punto che lo “stadio terrestre” della globalizzazione è inscindibile dall’incedere trionfante del Cristianesimo agli esordi della Modernità, fino a quell’età dell’oro della cristianizzazione esterna che resta l’Ottocento – secolo che invece nel Vecchio Mondo fu contrassegnato da movimenti violentemente anticristiani. Oggi, anche se un terzo della popolazione mondiale vive nell’area d’influenza del cristianesimo, non sono prevedibili nuove forti espansioni: l’avanzata militare della religione cristiana, nelle sue diverse confessioni, sembra aver raggiunto il proprio apice e ad un massimo relativo di diffusione si coniuga un minimo relativo d’intensità. Il Cristianesimo sarebbe dunque entrato, e irreversibilmente, perlomeno con il suo “plotone principale”, in una fase post-imperiale.
Il successo avrebbe indotto anche un’entropia. Sloterdijk considera un fenomeno entropico la trasformazione della fede cristiana negli Stati Uniti, dove il protestantesimo si è mutato, negli ultimi cinquant’anni, in una religione americana post-cristiana, con spiccati tratti gnostici, individualistici e machiavellici – come ha sostenuto tra i primi Harold Bloom[6].

Forest Whitekaer, Oscar 2007
L’esempio del nuovo credo postmoderno che cita Sloterdijk è fulminante. Nel corso della cerimonia per il conferimento degli Academy Awards – gli Oscar – del 2007, l’attore Forest Whitaker (premiato per la sua interpretazione di Amin Dada ne L’ultimo re di Scozia), ha concluso il suo intervento – secondo Sloterdijk – esclamando: “E ringrazio Dio per aver sempre creduto in me!”.
Resta adesso da discutere del terzo monoteismo, quello che si rifà alla sottomissione, la parola che in arabo si dice Islàm. Discorso complicato dalle sue implicazioni politiche, particolarmente virulente negli ultimi dieci anni. Anzi, prima di continuare nell’analisi, immagino si riaffacci di nuovo la solita domanda, stimolata dagli episodi bellici e terroristici che si susseguono: ma davvero la storia dell’ira di Dio – come la Storia in generale – si è conclusa? Che significato ha allora il perpetuarsi di quei conflitti? E le Torri, ed al Qaeda? Secondo Sloterdijk, allineato di fatto con le posizioni hegeliano-kojèviane, Usama Bin Laden fa per l’Islam del tardo XX secolo quel che ha fatto Marcel Duchamp per la storia dell’arte degli inizi dello stesso secolo (passato). La presunta “vendetta di Dio” lanciata da quelli che definisce surrealisti politici, cioè i terroristi fanatici islamisti, costituirebbe solo “un postludio, per metà comico e per metà macabro, a tradizioni teologiche più che millenarie, in cui si parlava, con ponderata serietà di una disciplina, studiata in tutti i suoi aspetti, dell’ira di Dio e del suo intervento nelle vicende umane”[7].

Musulmani indonesiani, 2007
Il giudizio di Sloterdijk sulle politiche dell’Islam non è però sbrigativo o elusivo. Sia in Ira e tempo che ne Il furore di Dio le analisi sono sussunte ai teoremi, a ciò che dev’essere dimostrato. Il teorema principale è che, se ebraismo e cristianesimo hanno ormai raggiunto da tempo l’acmé e stanno anzi in una fase di ristagno, l’islamismo ha ancora grandi margini di crescita davanti a sé. Non però per ragioni politiche o religiose, ma per motivi demografici: insomma,questione di quantità più che di qualità. La popolazione dell’emisfero islamico dal 1900 al 2000 si è moltiplicata per otto volte, passando da 150 milioni di persone ad un miliardo e duecento milioni. La dinamica demografica del suo campo di reclutamento lascia presagire che, alla fine di questo secolo, i musulmani potrebbero esser pari per numero o anche superare gli abitanti sotto l’influenza del cristianesimo.
Perché è un dato quantitativo e non qualitativo? Perché la grande fioritura araba nelle scienze, in filosofia, nelle arti e nel commercio s’interruppe alla fine del Cinquecento. Già nei due secoli precedenti gli europei avevano rimontato il gap, prima nel campo della filosofia, della teologia e delle scienze, poi nelle arti ed infine, dal Quattrocento in poi, nei commerci. Alle soglie dell’Ottocento venne sancita in ultimo la supremazia militare, con la campagna napoleonica in Egitto. Perché allora i musulmani continuano a crescere per numero? Oltre che per motivi banalmente demografici, come si è detto, perché il potenziale di attrazione dell’islamismo è ancora alto nei confronti delle popolazioni più disagiate e povere dell’Asia e dell’Africa, mentre è debole per le élite asiatiche, americane ed europee. La grande espansione della fede islamica, in ogni caso, esattamente come per il cristianesimo, è andata di pari passo con l’espansione militare. Sloterdijk ricorda la tesi di Rousseau nel Contratto sociale, secondo cui in passato non vi era “altro modo per convertire un popolo se non quello di asservirlo […], né altri missionari che i conquistatori”. Ciò non toglie, ovviamente, che “in tutte le terre conquistate sono avvenute conversioni alla fede islamica dovute a inclinazione e convinzione personale; ma è innegabile che, per la maggioranza dei nuovi credenti, la conversione sia iniziata con un invito armato alla preghiera”[8].

L'ecchimosi o il callo sulla fronte di molti fedeli musulmani a causa del prosternarsi
Se la capacità di espandersi demograficamente costituisce il terzo punto saliente dell’islamismo d’oggi, due altre sono le principali attrattive che esso esercita e di cui occorre tener conto per comprenderlo. La prima circostanza che consente di qualificare l’Islam politico come il vero successore del comunismo storico in quanto maggiore e più efficace banca dell’ira (quanto a depositi e a prestiti), è l’appassionante dinamica della sua missione, il suo essere – in altri termini – un formidabile movimento di massa, in senso stretto. L’islamismo è davvero una religione in moto, come lo erano state in precedenza la religione dell’Esodo ebraica ed il cristianesimo all’attacco sulle navi portoghesi e spagnole della prima rivoluzione planetaria globale – come la definiva Carl Schmitt.
Il carattere mobile dell’Islàm lo si deve anche alla dinamica offensiva insita fin nelle sure più antiche dell’annuncio maomettano. Nel messaggio del Profeta risuonerebbe insomma l’imperativo della crescita. Anche da questo punto di vista, Muhammad è il degno discendente di Paolo, con al differenza non irrilevante – aggiunge Sloterdijk – che l’apostolo, in quanto civile e cittadino di Roma, privilegiò un fervore non violento.
L’imperativo musulmano investe la coscienza e l’agire di ogni credente: il massimo dell’esistenza religiosa, la completa sottomissione alle disposizioni divine, dev’essere il livello medio che si può pretendere da ogni fedele.
Se si fotografa la realtà di fede di un musulmano, si nota che la dedizione media di un praticante al suo credo fa del fedele davvero un atleta della fede. Ogni musulmano praticante, al di là delle norme alimentari e del digiuno del Ramadān, deve fare giornalmente la şalāt, che comporta cinque preghiere con diciassette inchini e due prosternazioni ognuna. Il che significa ottantacinque inchini e dieci prosternazioni al giorno, 29.090 inchini e 3.540 prosternazioni all’anno. Ad ogni fedele musulmano, insomma, si richiede un impegno fisico superiore a quello che i cristiani richiedono agli appartenenti agli ordini monastici, dove la preghiera dev’essere eseguita sette volte al giorno, ma senza la “ginnastica” prevista dalla şalāt. Secondo Sloterdijk, sarebbe avventato sottovalutare l’efficacia formativa di così frequenti azioni rituali. Anzi, proprio istituendo l’obbligo generale per tutti i musulmani della preghiera rituale, l’Islàm è riuscito a introdurre il furore religioso nella vita quotidiana, contrappuntata da almeno cinque fasi dedicate alla fede.
Il filosofo tedesco non si esime da una riflessione sul jihād. Jihād significa “esercitare il massimo sforzo”, “combattere per”. In arabo, la parola è maschile. Ed al maschile viene usata, se si vuole rispettare il suo significato originario. Se usata al femminile, la jihād, s’intende di solito invece far pesare il significato acquisito di “guerra santa”: Sloterdijk lo usa al femminile.

Gerusalemme, città-chiave per i tre monoteismi
Sintetizzando un discorso invece complesso, i musulmani si rifanno a due significati principali di jihād (ne esistono altri, anche uno specifico per le donne, che significa “fare il pellegrinaggio alla Mecca”, migliore jihād per una femmina): “jihād minore (esteriore)” – uno sforzo militare, cioè una guerra legale e “jihād maggiore (interiore)” – lo sforzo per autoemendarsi, contrastando le pulsioni passionali dell’io. Per questo secondo significato, il pensiero va a quell'”ira contro se stessi” che già pochi secoli prima era stata invocata da Agostino come strumento per migliorarsi. Sloterdijk è dell’avviso che si sia imposta una volgarizzazione della jihād, rinunciando alla sublimazione del concetto – motivo per cui la sia può chiamare al femminile. Per quella frazione, non si sa quanto minoritaria dell’islamismo, che ha ripreso una serie di programmi universalistici offensivi nei confronti dei non credenti, il mondo è una scena sulla quale intessere un’agenda puramente immaginaria, per quanto tragicamente contrappuntata dalle morti e dalle distruzioni causate dagli attentati. L’islamismo saprà emendarsi, come in passato ha fatto in diverse occasioni cruciali il cristianesimo? In ogni caso, secondo Sloterdijk il futuro della religione islamica sarà per sempre segnato dall’associazione con il terrore. Resta però un interrogativo ancor più di fondo che riguarda gli effetti polemogeni congeniti al fanatismo monoteistico. In altre parole, Sloterdijk ha il sospetto – a suo avviso, largamente fondato – che “gli atti di violenza imputabili al Cristianesimo e all’Islàm non siano stati delle semplici inversioni di rotta che distorcevano l’essenza di dottrine religiose di per sé pacifiche, ma abbiamo rappresentato piuttosto la manifestazione di un potenziale polemogeno inscindibile dall’esistenza stessa di quelle stesse religioni” [1].
Forse, sono troppo alti i costi psico-storici delle pretese di verità monopolistiche delle evoluzioni religiose post-mosaiche.
E per la politica, quanto costa alla Politica il surplus timotico in circolazione nel mondo globalizzato? Proveremo a rispondere nei prossimi incontri.
[1] PS, FdD, pag. 149.
[1] Segnalo, ad esempio, di Carlo Maria Martini, L’ira di Dio ed altri scritti (1962-1994), TEA, Milano 1997.
[2] Peter Sloterdijk (2006), Ira e tempo, pag. 86.
[3] PS, FdD, pag. 2. La frase di Derrida è tratta da Spettri di Marx, ict., pag. 78. Sul mondo fuori asse, un’affermazione di Amleto, si veda il google group sul corso passato, dedicato al Sapere assoluto e la post-Storia.
[4] PS, FdD, pag. 47.
[5] Ivi, pag. 30.
[6] Harold Bloom, La religione americana: l’avvento della nazione post-cristiana, tr.it., Garzanti,Milano 1994.
[7] Ivi, pag. 92.
[8] PS, FdD, pag. 72.