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Dio all’attacco

10 dicembre 2008

La questione dell’ira di Dio, da un punto di vista teologico, non è affatto semplice. E continua ad interessare anche la teologia contemporanea[1]. Sloterdijk invece, nel testo di cui ci occupiamo, non è tanto interessato alle riflessioni teologiche sull’ira, in fondo “pseudo argomenti di importanza esclusivamente psicostorica”. Diversa però è la valutazione della loro rilevanza per comprendere le modalità di creazione del mondo dell’homo hierarchicus, della psicologia della schiavitù volontaria, della dinamica mentale del masochismo ontologico, dell’economia del risentimento. Insomma, delle pratiche costitutive di quella gigantesca e potente banca trascendentale dell’ira nella quale sono stati versati per secoli impulsi umani timotici e progetti rinviati di vendetta che sono le religioni: “Il Dio iroso non è nient’altro che l’amministratore di quei depositi terreni di risentimento che sono custoditi in lui stesso e presso il suo subordinato executive diabolico, per essere pronti a un successivo prelievo”.
ebrei-vs-musulParlando dell’ ira di Dio, si parla necessariamente anche della Storia. Con un’espressione a effetto assai calzante, Sloterdijk fa notare infatti che “la storia degli uomini è un sinonimo esteso di ciò che irrita Dio”, che quindi nella Storia mostra da sempre la sua ira[2]. La memoria dell’ira di Dio disegna i contorni della Storia; rammemorando gli eccessi d’ira di Yahve, gli Ebrei si sono costituiti in popolo ed hanno potuto allacciare i fili delle loro vicende.
Morto Dio, o messolo da parte, e ritraducendo nel tempo la sua ira – ora governata però da una regìa umana – si otterrà la Storia rivoluzionaria: nella modernità, vendetta ed immanenza si sono uniti sotto il segno della Rivoluzione. Di questa Storia Sloterdijk parla nella terza parte di Ira e tempo, intitolata La rivoluzione timotica.
Derrida, ripreso da Sloterdijk e citato da molti, ha scritto che la quale “la guerra per l'”appropriazione di Gerusalemme” è oggi la guerra mondiale. Ha luogo dappertutto, è il mondo, è oggi la figura singolare del suo essere out of joint[3]. Non si deve per forza esser d’accordo con Huntington per valutare l’importanza di quel clash of monotheisms che ricorrentemente esplode da 1300 anni a questa parte, in una combinazione dodecamorfica: cristiani vs ebrei, cristiani vs musulmani, musulmani vs ebrei, musulmani e cristiani vs ebrei, musulmani ed ebrei vs cristiani, e così via fino alle dodici combinazioni possibili. Che diventano molti di più, se vi si aggiungono i conflitti intramonoteistici, spesso altrettanto virulenti: cattolici vs riformati, sunniti vs sciiti, ebrei ortodossi vs liberali. La secolarizzazione, fenomeno globalizzato fino ad un certo punto, non sembra aver messo un freno ai conflitti, anzi: si potrebbe sostenere che anche se “i conflitti intermonoteistici ed intramonoteistici abbiano già richiesto fin troppe vittime”, “se si studiano le possibilità di scontro tra le religione menzionate […] si noterà come la realtà storica resti largamente indietro rispetto alle possibilità del copione”[4]. meno-moscheeEventualità facilitata dal fatto che, tutte e tre le religioni monoteistiche, proprio a causa delle loro iniziali condizioni polemiche, possono essere definite – secondo il Preside di Karlsruhe – come “religioni al fronte“, nel senso che in ognuna sarebbe insito un certo habitus mentale di “presa del mondo”, per dirla con Carl Schmitt. Che parlando dell’ira di Dio si parli ancora della Storia lo si deve anche ad un’intuizione di Habitus particolarissimo quello dell’Ebraismo, per il quale non avrebbe senso parlare di una disposizione all’attacco, diciamo così, nei termini di una campagna di guerra mirante al proselitismo ed all’espansionismo; mentre può considerarsi anch’essa una religione al fronte nei termini di una lotta per l’autoconservazione. L’ebraismo infatti è la religione di un popolo che resta tale e che bada a non contaminarsi, nonostante la diaspora plurimillenaria. Lotta per l’autoconservazione che sconta un paradosso noto dell’Ebraismo e che Sloterdijk richiama: il fatto che un Dio universale sia “specializzato” su un unico popolo, su una ristretta stirpe di eletti. Come può l’Unico Dio essere il Dio solo di una ristrettissima minoranza umana?
Il paradosso divine una sfida raccolta da Saulo/Paolo che strappa il velo del privilegio ad un popolo solo, a vantaggio di una comunità davvero universale, la cui parentela sarà data dall’essere tutti fratelli in Cristo, e non più in un vincolo di sangue: “il colpo di genio paolino trasferisce l’Alleanza con Dio a un nuovo popolo, a cui sono ‘chiamati’ i fedeli di tutti i popoli: questa nuova collettività si chiamerà pertanto ekklesia, o Nuovo Israele”[5].
Se per l’ebraismo occorre quindi introdurre dei distinguo in merito alla sua vocazione espansionistica, non così per il nuovo monoteismo lanciato dall’Apostolo delle genti.

la croce fiammeggiante del Ku-Klux-Klan

la croce fiammeggiante del Ku-Klux-Klan

Tuttavia Sloterdijk è tra chi, come Hegel, ritiene che non siano state le Crociate l’episodio clou della guerra cristiana, tanto che ancora si discute sul loro carattere di guerra offensiva oppure di reazione, o “preventiva” nella definizione di Wolfowitz: tra l’undicesimo ed il tredicesimo secolo, l’Islam era ancora in una fase di espansione, politica e commerciale, alla quale l’Europa avrebbe reagito, coniugando primarie ragioni di carattere economico al motivo religioso-simbolico della riconquista del Santo Sepolcro. Secondo Sloterdijk, le più imponenti campagne espansionistiche del Cristianesimo appartengono piuttosto all’epoca post-medievale. Al punto che lo “stadio terrestre” della globalizzazione è inscindibile dall’incedere trionfante del Cristianesimo agli esordi della Modernità, fino a quell’età dell’oro della cristianizzazione esterna che resta l’Ottocento – secolo che invece nel Vecchio Mondo fu contrassegnato da movimenti violentemente anticristiani. Oggi, anche se un terzo della popolazione mondiale vive nell’area d’influenza del cristianesimo, non sono prevedibili nuove forti espansioni: l’avanzata militare della religione cristiana, nelle sue diverse confessioni, sembra aver raggiunto il proprio apice e  ad un massimo relativo di diffusione si coniuga un minimo relativo d’intensità. Il Cristianesimo sarebbe dunque entrato, e irreversibilmente, perlomeno con il suo “plotone principale”, in una fase post-imperiale.
Il successo avrebbe indotto anche un’entropia. Sloterdijk considera un fenomeno entropico la trasformazione della fede cristiana negli Stati Uniti, dove il protestantesimo si è mutato, negli ultimi cinquant’anni, in una religione americana post-cristiana, con spiccati tratti gnostici, individualistici e machiavellici – come ha sostenuto tra i primi Harold Bloom[6].

Forest Whitekaer, Oscar 2007

Forest Whitekaer, Oscar 2007

L’esempio del nuovo credo postmoderno che cita Sloterdijk è fulminante. Nel corso della cerimonia per il conferimento degli Academy Awards – gli Oscar – del 2007, l’attore Forest Whitaker (premiato per la sua interpretazione di Amin Dada ne L’ultimo re di Scozia), ha concluso il suo intervento – secondo Sloterdijk – esclamando: “E ringrazio Dio per aver sempre creduto in me!”.
Resta adesso da discutere del terzo monoteismo, quello che si rifà alla sottomissione, la parola che in arabo si dice Islàm. Discorso complicato dalle sue implicazioni politiche, particolarmente virulente negli ultimi dieci anni. Anzi, prima di continuare nell’analisi, immagino si riaffacci di nuovo la solita domanda, stimolata dagli episodi bellici e terroristici che si susseguono: ma davvero la storia dell’ira di Dio – come la Storia in generale – si è conclusa? Che significato ha allora il perpetuarsi di quei conflitti? E le Torri, ed al Qaeda? Secondo Sloterdijk, allineato di fatto con le posizioni hegeliano-kojèviane, Usama Bin Laden fa per l’Islam del tardo XX secolo quel che ha fatto Marcel Duchamp per la storia dell’arte degli inizi dello stesso secolo (passato). La presunta “vendetta di Dio” lanciata da quelli che definisce surrealisti politici, cioè i terroristi fanatici islamisti, costituirebbe solo “un postludio, per metà comico e per metà macabro, a tradizioni teologiche più che millenarie, in cui si parlava, con ponderata serietà di una disciplina, studiata in tutti i suoi aspetti, dell’ira di Dio e del suo intervento nelle vicende umane”[7].

Musulmani indonesiani, 2007

Musulmani indonesiani, 2007

Il giudizio di Sloterdijk sulle politiche dell’Islam non è però sbrigativo o elusivo. Sia in Ira e tempo che ne Il furore di Dio le analisi sono sussunte ai teoremi, a ciò che dev’essere dimostrato. Il teorema principale è che, se ebraismo e cristianesimo hanno ormai raggiunto da tempo l’acmé e stanno anzi in una fase di ristagno, l’islamismo ha ancora grandi margini di crescita davanti a sé. Non però per ragioni politiche o religiose, ma per motivi demografici: insomma,questione di quantità più che di qualità. La popolazione dell’emisfero islamico dal 1900 al 2000 si è moltiplicata per otto volte, passando da 150 milioni di persone ad un miliardo e duecento milioni. La dinamica demografica del suo campo di reclutamento lascia presagire che, alla fine di questo secolo, i musulmani potrebbero esser pari per numero o anche superare gli abitanti sotto l’influenza del cristianesimo.
Perché è un dato quantitativo e non qualitativo? Perché la grande fioritura araba nelle scienze, in filosofia, nelle arti e nel commercio s’interruppe alla fine del Cinquecento. Già nei due secoli precedenti gli europei avevano rimontato il gap, prima nel campo della filosofia, della teologia e delle scienze, poi nelle arti ed infine, dal Quattrocento in poi, nei commerci. Alle soglie dell’Ottocento venne sancita in ultimo la supremazia militare, con la campagna napoleonica in Egitto. Perché allora i musulmani continuano a crescere per numero? Oltre che per motivi banalmente demografici, come si è detto, perché il potenziale di attrazione dell’islamismo è ancora alto nei confronti delle popolazioni più disagiate e povere dell’Asia e dell’Africa, mentre è debole per le élite asiatiche, americane ed europee. La grande espansione della fede islamica, in ogni caso, esattamente come per il cristianesimo, è andata di pari passo con l’espansione militare. Sloterdijk ricorda la tesi di Rousseau nel Contratto sociale, secondo cui in passato non vi era “altro modo per convertire un popolo se non quello di asservirlo […], né altri missionari che i conquistatori”. Ciò non toglie, ovviamente, che “in tutte le terre conquistate sono avvenute conversioni alla fede islamica dovute a inclinazione e convinzione personale; ma è innegabile che, per la maggioranza dei nuovi credenti, la conversione sia iniziata con un invito armato alla preghiera”[8].

L'ecchimosi o il callo sulla fronte di molti fedeli musulmani a causa del prosternarsi

L'ecchimosi o il callo sulla fronte di molti fedeli musulmani a causa del prosternarsi

Se la capacità di espandersi demograficamente costituisce il terzo punto saliente dell’islamismo d’oggi, due altre sono le principali attrattive che esso esercita e di cui occorre tener conto per comprenderlo. La prima circostanza che consente di qualificare l’Islam politico come il vero successore del comunismo storico in quanto maggiore e più efficace banca dell’ira (quanto a depositi e a prestiti), è l’appassionante dinamica della sua missione, il suo essere – in altri termini – un formidabile movimento di massa, in senso stretto. L’islamismo è davvero una religione in moto, come lo erano state in precedenza la religione dell’Esodo ebraica ed il cristianesimo all’attacco sulle navi portoghesi e spagnole della prima rivoluzione planetaria globale – come la definiva Carl Schmitt.
Il carattere mobile dell’Islàm lo si deve anche alla dinamica offensiva insita fin nelle sure più antiche dell’annuncio maomettano. Nel messaggio del Profeta risuonerebbe insomma l’imperativo della crescita. Anche da questo punto di vista, Muhammad è il degno discendente di Paolo, con al differenza non irrilevante – aggiunge Sloterdijk – che l’apostolo, in quanto civile e cittadino di Roma, privilegiò un fervore non violento.
L’imperativo musulmano investe la coscienza e l’agire di ogni credente: il massimo dell’esistenza religiosa, la completa sottomissione alle disposizioni divine, dev’essere il livello medio che si può pretendere da ogni fedele.
Se si fotografa la realtà di fede di un musulmano, si nota che la dedizione media di un praticante al suo credo fa del fedele davvero un atleta della fede. Ogni musulmano praticante, al di là delle norme alimentari e del digiuno del Ramadān, deve fare giornalmente la şalāt, che comporta cinque preghiere con diciassette inchini e due prosternazioni ognuna. Il che significa ottantacinque inchini e dieci prosternazioni al giorno, 29.090 inchini e 3.540 prosternazioni all’anno. Ad ogni fedele musulmano, insomma, si richiede un impegno fisico superiore a quello che i cristiani richiedono agli appartenenti agli ordini monastici, dove la preghiera dev’essere eseguita sette volte al giorno, ma senza la “ginnastica” prevista dalla şalāt. Secondo Sloterdijk, sarebbe avventato sottovalutare l’efficacia formativa di così frequenti azioni rituali. Anzi, proprio istituendo l’obbligo generale per tutti i musulmani della preghiera rituale, l’Islàm è riuscito a introdurre il furore religioso nella vita quotidiana, contrappuntata da almeno cinque fasi dedicate alla fede.
Il filosofo tedesco non si esime da una riflessione sul jihād. Jihād significa “esercitare il massimo sforzo”, “combattere per”. In arabo, la parola è maschile. Ed al maschile viene usata, se si vuole rispettare il suo significato originario. Se usata al femminile, la jihād, s’intende di solito invece far pesare il significato acquisito di “guerra santa”: Sloterdijk lo usa al femminile.

Gerusalemme, città-chiave per i tre monoteismi

Gerusalemme, città-chiave per i tre monoteismi

Sintetizzando un discorso invece complesso, i musulmani si rifanno a due significati principali di jihād (ne esistono altri, anche uno specifico per le donne, che significa “fare il pellegrinaggio alla Mecca”, migliore jihād per una femmina): “jihād minore (esteriore)” – uno sforzo militare, cioè una guerra legale e “jihād maggiore (interiore)” – lo sforzo per autoemendarsi, contrastando le pulsioni passionali dell’io. Per questo secondo significato, il pensiero va a quell'”ira contro se stessi” che già pochi secoli prima era stata invocata da Agostino come strumento per migliorarsi. Sloterdijk è dell’avviso che si sia imposta una volgarizzazione della jihād, rinunciando alla sublimazione del concetto – motivo per cui la sia può chiamare al femminile. Per quella frazione, non si sa quanto minoritaria dell’islamismo, che ha ripreso una serie di programmi universalistici offensivi nei confronti dei non credenti, il mondo è una scena sulla quale intessere un’agenda puramente immaginaria, per quanto tragicamente contrappuntata dalle morti e dalle distruzioni causate dagli attentati. L’islamismo saprà emendarsi, come in passato ha fatto in diverse occasioni cruciali il cristianesimo? In ogni caso, secondo Sloterdijk il futuro della religione islamica sarà per sempre segnato dall’associazione con il terrore. Resta però un interrogativo ancor più di fondo che riguarda gli effetti polemogeni congeniti al fanatismo monoteistico. In altre parole, Sloterdijk ha il sospetto – a suo avviso, largamente fondato – che “gli atti di violenza imputabili al Cristianesimo e all’Islàm non siano stati delle semplici inversioni di rotta che distorcevano l’essenza di dottrine religiose di per sé pacifiche, ma abbiamo rappresentato piuttosto la manifestazione di un potenziale polemogeno inscindibile dall’esistenza stessa di quelle stesse religioni” [1].
Forse, sono troppo alti i costi psico-storici delle pretese di verità monopolistiche delle evoluzioni religiose post-mosaiche.
E per la politica, quanto costa alla Politica il surplus timotico in circolazione nel mondo globalizzato? Proveremo a rispondere nei prossimi incontri.

[1] PS, FdD, pag. 149.


[1] Segnalo, ad esempio, di Carlo Maria Martini, L’ira di Dio ed altri scritti (1962-1994), TEA, Milano 1997.
[2] Peter Sloterdijk (2006), Ira e tempo, pag. 86.
[3] PS, FdD, pag. 2. La frase di Derrida è tratta da Spettri di Marx, ict., pag. 78. Sul mondo fuori asse, un’affermazione di Amleto, si veda il google group sul corso passato, dedicato al Sapere assoluto e la post-Storia.
[4] PS, FdD, pag. 47.
[5] Ivi, pag. 30.
[6] Harold Bloom, La religione americana: l’avvento della nazione post-cristiana, tr.it., Garzanti,Milano 1994.
[7] Ivi, pag. 92.
[8] PS, FdD, pag. 72.

Bataille prima di Sloterdijk

25 novembre 2008

Il saggio di Bataille La nozione di dépense presenta già in nuce gli argomenti che l’autore svilupperà nel testo La parte maledetta. Il nucleo dell’argomentazione bataillana è perfettamente espresso già nel titolo del paragrafo introduttivo del saggio: Insufficienza del principio classico dell’utilità.
L’utilità a cui fa riferimento Bataille è quella economica (tutto il saggio ha come argomento l’economia). La tesi è la seguente: il principio classico di utilità, ossia quello di produttività, non basta a spiegare il funzionamento dell’economia reale, se non attraverso una fictio che non tiene conto di una parte importantissima dell’economia reale: quella che appunto è la parte maledetta: “L’attività umana non è interamente riducibile a processi di produzione e di conservazione, e il consumo dev’essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall’uso del minimo necessario, agli individui di una data società, per  la conservazione della vita e per la continuazione dell’attività produttiva: si tratta dunque della condizione fondamentale di quest’ultima. La seconda parte è rappresentata dalle spese cosiddette improduttive: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale) rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive, hanno il loro fine in se stesse.”[1]  

George Bataille

George Bataille

Vi è dunque una parte, anzi, La parte, dell’economia e della produzione, che viene, sprecata, distrutta, destinata all’In-produzione, all’In-produttivo. La parte maledetta. La parte del dispendio. Il limite dell’utile (titolo di un altro testo, o meglio degli appunti preparatori a La parte maledetta poi pubblicati separatamente, di Bataille su questo argomento). La dépense.
Bataille riconduce la nascita stessa dell’economia alla dépense, seguendo le analisi di M. Mauss sul dono: non sarebbe stato il baratto la forma arcaica dello scambio, ma il potlàc: il dono spropositato di ricchezze fatto al fine di obbligare, umiliare, sottomettere il donatario al prestigio di colui che dona. O addirittura la distruzione spettacolare delle suddette ricchezze, effettuata per gli stessi fini.
Ad un potlàc doveva necessariamente far seguito un altro potlàc, di grandezza uguale o maggiore.
Nasce così, coestensivamente all’economia, il prestito ad usura, che, ci dice, Bataille, assomiglia molto al sistema di prestiti bancari proprio delle società attuali: nelle società del potlàc assommando tutti gli averi effettivi di coloro che si facevano prestare beni al fine di rispondere al dono obbligante non si sarebbe mai avuto il reale importo dei beni imprestati, ma sempre di meno. Esattamente come accade nel moderno sistema bancario: assommando i beni dei beneficiari dei prestiti non si avrà mai una somma pari al prestito erogato.
Operare una considerazione retrospettiva sulle cause della moderna crisi economica alla luce di queste, ma soprattutto delle successive considerazioni, è un compito interessante, che lascio a ciascuno.
Dunque alla base dell’economia cosa c’è secondo Bataille? Un problema, una questione di riconoscimento, di orgoglio: di thymós potremmo dire, in una parola.
È per essere riconosciuti [2], per affermare il proprio rango sociale, per umiliare l’avversario, per ricoprirsi di gloria che si distruggono, con spettacolari ecatombi di bestiame e schiavi, con distruzioni apparentemente assurde di beni accumulati in lunghi periodi di tempo, i frutti dell’accumulazione economica, la parte più rilevante di essi. 
È la proprietà positiva della perdita, come la chiama Bataille: il fatto che la parte delle passioni, la parte più importante dell’animo umano, non sia, non possa essere, soddisfatta dal mero consumo e accumulazione dei beni prodotti. Entrano in gioco altri valori, valori propri del thymós, della parte dell’animo che non risponde alle leggi dell’economia di produzione. Non a caso Bataille riporta come sia la gloria, disposizione emotiva timotica per eccellenza, un validissimo esempio di sentimento collegato alla parte dell’animo che sottostà alle leggi della dépense. Non si pensi che le argomentazioni bataillane siano valide solo per quel lontano mondo arcaico in cui valevano le leggi (che per noi sembrano assurde al limite del ridicolo) del potlàc.
La dépense vive, ed è costantemente presente anche (e forse soprattutto) nel mondo di oggi.
Le parole di Bataille meritano di essere riportate per la loro incisività: “Intorno alle banche moderne, come intorno agli alberi totemici dei kwakiutl, il medesimo desiderio di offuscare gli altri anima gli individui e li trascina in un sistema di piccole parate che li acceca reciprocamente, come se fossero davanti ad una luce troppo forte. A qualche passo dalla banca, gioielli, abiti, macchine attendono nelle vetrine il giorno in cui serviranno a costituire l’accresciuto splendore di un sinistro industriale e della sua vecchia consorte, ancor più sinistra. A un grado inferiore, pendole dorate, credenze per sale da pranzo, fiori artificiali, rendono servizi egualmente inconfessabili a coppie di droghieri. L’invidia da essere umano a essere umano si libera come tra i selvaggi, con equivalente brutalità: solo la generosità, la nobiltà sono scomparse e, con loro, la contropartita spettacolare che i ricchi ricambiavano ai miserabili.”[3]   La virtù che dona (per usare una bella espressione di Nietzsche) è quella che è venuta a mancare: la dépense antica si esplicava nelle feste, nei banchetti pubblici, fino alle opere straordinarie dell’evergetismo greco-romano: strade, monumenti, opere pubbliche erano finanziati dai ricchi, dai nobili, dai potenti, solo per accrescere il proprio onore, la propria gloria; solo per appagare il proprio desiderio di riconoscimento. Ancora oggi percorriamo quella Via Appia che il patrizio romano Appio Claudio Cieco finanziò col patrimonio della sua gens, la gens Claudia.
Oggi la dépense  si esaurisce nell’accumulazione di beni, nella loro esposizione o anche nella loro mera conservazione: macchine di lusso, gioielli, oggetti innominabili  per mutuare l’espressione bataillana. Lo spirito della dépense della nostra epoca credo possa essere ben rappresentato dai programmi televisivi in cui celebrità del mondo dello spettacolo mostrano le proprie gigantesche case, con i propri mostruosi parchi macchine a compiaciute telecamere e ad ancor più compiaciuti spettatori, appagati dalla mera automanifestazione dell’altrui thymós, in cui proiettano il proprio.
La parte maledetta diviene ancora di più tale, oscura, maledetta sempre più, perché autoreferenziale.
Il petroliere interpretato magistralmente dal premio oscar Daniel Day Lewis in There will be blood potrebbe essere preso come uno dei campioni della dépense timotica più oscura, in cui è sparita ogni traccia di apertura verso l’altro, verso la societas: protocapitalista creatosi da solo, alla sua brama assoluta di affermazione sacrifica tutto: il figlio, l’amicizia, la famiglia, l’amore, l’onore, Dio. La frase che forse incarna meglio il suo thymós ipertrofico lanciato verso  l’inferno dell’egoità autoreferenziale è la seguente: “Io non voglio che altri riescano. Odio la maggior parte della gente. Guardo le persone e non ci trovo niente da attraente. Io vedo il peggio nelle persone. La mia barriera di odio si è alzata, lenta negli anni.” Bataille, prima di Sloterdijk, ed in ciò riconosciuto dal filosofo di Karlsruhe, è stato uno dei primi a dare il giusto valore alle passioni-contro, alla timotica, in campo pubblico, economico-politico per la precisione.
Abbiamo visto nelle lezioni precedenti come attraverso una sapiente gestione dei potenziali timotici degli ultimi, degli umiliati e offesi prima dell’impero, poi dell’intero globo, il cristianesimo abbia fondato un impero politico mondano. Sloterdijk parla appunto del cristianesimo come prima grande banca dell’ira: si gestisce il mondano differendo i potenziali d’odio e di risentimento e rimandandoli al giorno finale, al dies irae, al giorno dell’ira, in cui Dio punirà tutti i colpevoli. E una delle somme beatitudini, sarà, secondo Origene, padre della chiesa, guardare dal paradiso i malvagi che si contorcono nelle fiamme dell’inferno. A Bataille dobbiamo una folgorante descrizione del cristianesimo negli stessi termini: “Esso [Il cristianesimo] si lega strettamente alla disperazione terrestre, non essendo a sua volta altro che un epifenomeno dell’odio che divide gli uomini (…) Il senso del cristianesimo si dà nello sviluppo delle conseguenze deliranti della dépense di classe, in un’orgia menatale agonistica praticata a scapito della lotta reale.”[1]
Abbiamo visto come le passioni-contro, i sentimenti timotici, siano un patrimonio fondamentale da saper gestire ed amministrare, particolarmente nelle modalità del differimento, se si vuole mantenere un solido impianto terreno. E paradossalmente è stato proprio il cristianesimo, che per definizione è rappresentante di un regno che non è di questo mondo, ad avercelo mostrato.
Solo da un ben organizzato impianto di accumulazione e differimento dell’ira possono essere gettate le basi per un controllo politico di masse svuotate dei loro potenziale distruttivi.  L’ordine regna solo dove il thymós è impegnato in attività regolamentate da un fine immanente. Altrimenti all’ordine ed alla regolamentazione statale si sostituisce la rivoluzione, la resistenza, il dissidio, l’ira delle masse.
Non a caso Sloterdijk ricorda che il concetto di resistenza è l’unica alternativa che rimane, fin dall’epoca dei Maccabei, agli sconfitti ed agli oppressi per vivere nel reale, fatto salvo il sottomettersi agli impianti di gestione del thymós o a quelli di oppressione.
[1] G. Bataille, La parte maledetta., op. cit., pag. 44
[2] Il riconoscimento è una tematica cara a Bataille, che l’aveva appresa dal suo più importante referente filosofico (nonché amico e maestro): Alexandre Kojève, che aveva fatto proprio del desiderio di riconoscimento la chiave di lettura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, come si è visto nelle precedenti lezioni. [3] G. Bataille, La parte maledetta, op. cit., pag. 52-53
[4] G. Bataille, La parte maledetta, op. cit., pag. 57