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Felicità tra erotica e timotica

27 gennaio 2009

I sentimenti timotici sono forti e rilevanti, ma nell’ambito delle riflessioni e delle analisi novecentesche sulla galassia sentimentale sembra sia stata riservata loro scarsa considerazione; l’attenzione si sarebbe concentrata di più sulla disposizione erotica dell’individuo, sui suoi rapporti verso gli altri e con il mondo. La mia ipotesi è che nel costituirsi della felicità individuale rientrino invece anche fattori timotici, e che il loro essere sottostimati dalla nostra cultura abbia un ruolo ai fini della sua generalizzata assenza, nella diffusa infelicità personale.
In altre parole, per esser felici sembra necessario un Sé fondato non soltanto sulle capacità erotiche del soggetto (i sentimenti-verso, come vien detto; la capacità di amare innanzitutto, e poi quella di provare compassione e pietà per gli altri, l’empatia, così rilevante per un settore degli studi cognitivisti d’oggi, ed infine il desiderio di possesso), ma è necessario probabilmente che la personalità individuale appagata poggi anche su di un sentimento di sé fatto di autostima, di orgoglio personale, di desiderio legittimo di esser riconosciuti dagli altri. Appunto, su quei sentimenti timotici oggi tendenzialmente silenziati nella cultura “progressista” o democratica che tende ad assimilarli tout court al narcisismo.
Dagli anni Settanta in poi, volendo indicare una data, ci si è gradualmente distaccati dall’antico primato della timotica, ancora attuale al tempo degli empiti rivoluzionari e socialisti, a vantaggio di un’erotizzazione senza confini, di una ri-privatizzazione delle illusioni. Se il passato timotico aveva visto il predominio assiologico dei valori combattenti, oggi – nella sfera avanzata del consumo – amare, desiderare e godere conchiudono l’orizzonte e diventano il primo dovere. Cadono i precetti di astinenza e – per esprimersi con Sloterdijk – s’impongono nuovi comandamenti morali fondati sul desiderio ed il godere pubblicamente e sulla responsabilizzazione dell’individuo nella competizione per il godimento.

Ma nonostante il primato dell’erotico, i sentimenti timotici permangono. Ed a volte si esasperano, se non si riesce ad essere felici attraverso l’erotizzazione del proprio orizzonte di attesa. Vivendo in una banlieu di Marsiglia od in una bidonville di Lagos o di Messico, al centro di un universo multicentrico che ha smarrito la periferia, surclassato dalle proposte del lusso e dell’erotica, come si può sfogare la frustrazione per non avere ciò che i media dicono ci spetti? Il latore d’ira contemporaneo non ha scenari che lo orientino, non ha porte Scee o mura sotto le quali far scempio di nemici – anzi, a ben vedere, non sa neppure chi sono i suoi nemici. E non ha neppure narrazioni convincenti che gli assegnino un posto conveniente negli avvenimenti mondiali di cui, comunque, è chiamato a far parte, da ogni angolo: dalla televisione, dalla cartellonistica, da Internet, se vi ha accesso.
Ed è allora che il drive timotico viene surrogato perseguendo illusoriamente la felicità attraverso il ritorno alle invenzioni etniche e sub culturali della storia. E se queste non sono disponibili, subentrano al loro posto delle costruzioni locali noi-loro. Dallo spaesamento, la fuga in se stessi. E per trovarvi conforto, l’espulsione dalla propria immagine del sé di ogni aspetto perturbante. Lo straniero, il diverso, il barbaro non è che il fantasma della singolarità diversa da sé che non riusciamo ad accettare senza provare paura.

happiness-1Sradicamento e felicità

Non serve pensare queste soggettività irrelate per forza a Mumbay o a Manila. E’ sufficiente abitare in val Chiavenna, o in un qualunque paesino di quella città infinita che va da Milano a Treviso. Ovunque, la dissoluzione dell’identità sociale è caratterizzata dall’instaurarsi di relazioni “più corte”, circoscritte ad un orizzonte spazio-temporale di più facile controllo. Si ricorre al già noto, alle differenze si sostituiscono criteri di uniformità spacciati per differenze.
Si fa di tutto, pur di sentirsi meno infelici, meno precari, meno dispersi, meno assediati dall’altro e dal diverso. Ci si riesce meglio se non si è soli; una ricerca inglese condotta di recente su quasi cinquemila soggetti seguiti per 20 anni attesta che la felicità è un fenomeno collettivo, come la salute. Nel senso che la felicità individuale è fortemente correlata alla felicità degli altri che ci attorniano[1].
I protagonisti atomistici di questa communitas che tale non è, una cosa importante la condividono eccome: ed è la dinamica del desiderio nei confronti delle cose, innescata da quelle che Bonomi chiama “le piccole fredde passioni” tipiche dell’attuale fase storica e che appartengono in pieno alla declinazione erotica del soggetto. Insomma, ci si deve accontentare dei beni di qua, se quelli di là non ci vengono più presentati con la stessa incisività e persuasione di una volta dalla maggiore e, in apparenza, affidabile banchiere della storia, la Chiesa, amministratore delegato dell’eternità per conto di Dio.

Oggi la fede cristiana è in crisi (non così quella musulmana, invero, almeno dal punto di vista numerico), mentre quella nel capitalismo – nonostante le profonde ferite inferte all’ambiente e le turbolenze finanziarie dei mercati – gode di una salute migliore e la felicità viene sempre più ricercata attraverso il possesso di beni materiali. Come dimostra la fenomenologia della ricchezza del Nord Italia illustrata appunto da Aldo Bonomi, vi è un vasto mercato di merci concepite proprio per soddisfare i desideri erotico-edonistici delle persone.
Ma che ne è del mercato dei desideri timotici? C’è la stessa offerta? Dopo il fallimento delle due banche universali dell’ira alle quali Sloterdijk si riferisce usualmente – il Paradiso dei Santi e quello dei Rivoluzionari – il mercato delle passioni timotiche ha subito una contrazione avvilente che ha fatto sì che, in capo ad una ventina di anni, l’offerta di Befriedigung dei desideri timotici – di soddisfazione nel senso hegeliano di appagamento, base e fondamento di ogni possibile felicità terrena, reale e non illusoria – sia stata quasi monopolizzata dalle organizzazioni politiche della Destra.
happiness-beatlesLa sottovalutazione dell’universo timotico, in politica, è propria principalmente dei progressisti democratici, che hanno probabilmente scontato più della controparte quella fiducia eccessiva – “illuministica” – nell’evidenza della ragione, prendendo le distanze sia dalle passioni timotiche “al positivo” (onore, amor proprio, orgoglio, stima, ecc.), sia da quelle troppo facilmente connotabili “al negativo” – come l’ira, la paura, la rabbia, il rancore, eccetera.

Per essere disponibili alla felicità, sosteneva Marx, è meglio essere atei ed essere attivi, avere un lavoro. Se non ci si illude su di un domani ultraterreno, si dovrebbe essere più disponibili ad apprezzare il mondo ed a cercarvi una felicità non demandabile ad un futuro escatologico. Il lavoro – se non alienato, per dirla con Marx – porta a socializzare e quindi ad incontrare – con maggiori probabilità rispetto ad una pratica di vita solipsistica – una felicità che sembrerebbe essere un fenomeno collettivo, oltre che individuale. Il lavoro inoltre è un potente collettore timotico, in grado di rafforzare l’orgoglio, l’amor proprio, l’autostima.
Sarebbe quindi il caso innanzitutto che le forze politiche democratiche tornassero a valorizzare il lavoro e le attività nelle quali ci si produce, a difenderle e promuoverle. E che inoltre non tralasciassero quelle passioni non erotiche che pure contribuiscono alla costituzione del sé e ad un processo d’identificazione in grado di soddisfare la persona senza raggelarla nel narcisismo e nella pulsione di morte. Non voglio certo riproporre una versione ammodernata del Bushidō giapponese, del codice d’onore samurai. Ma dove sta scritto che onore, orgoglio, coraggio, autostima debbano restare vuote parole d’ordine strillate dalle curve degli stadi e nei cortei della destra ultrà?

 


[1] Dynamic spread of happiness in a large social network: longitudinal analysis over 20 years in the Framingham Heart Study, BMJ 2008;337:a2338.

Elogio dell’ignavia – Come salvare Julian [di Fabio Piloni]

14 gennaio 2009

E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’ è che par nel duol sì vinta?».

Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
 

Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, canto III

Mi sono sempre chiesto perché Dante mise gli ignavi, quelli che non prendono posizione, nell’Inferno. Anzi nemmeno in quello! Il poeta s’inventò l’Antinferno per queste anime tristi, che se fossero scese nell’Ade avrebbero fatto sì che i dannati si sarebbero potuti glorificare rispetto ad essi; avendo loro almeno scelto, nella vita, da che parte stare, sia pure nel male. Io mi sentivo però una di quelle povere anime, non riuscivo a vedere l’assoluto bene da una parte e l’assoluto male dall’altra. Perché dovevo essere condannato in modo peggiore di chi aveva scelto il male? Finalmente ho avuto una piccola rivincita attraverso Sloterdjik e Lakoff che, rispettivamente, con il proclama del pensiero polivalente e del biconcettualismo, mi hanno salvato dal correre nudo per l’eternità dietro un vessillo, per di più tormentato da vespe e mosconi.

Queste salvifiche concezioni forse avrebbero anche potuto evitare a Julian la terribile morte che si procurò dandosi in pasto ai maiali. Mi sto riferendo allo spettacolo teatrale Porcile, di Pasolini, nell’edizione tenutasi al teatro Argentina nello scorso dicembre. Julian non prende posizione, come dice il padre “non è né obbediente né disobbediente“, non sta con i capitalisti e nemmeno con chi protesta. Un ignavo con tutti i crismi insomma. L’ignavia però secondo me, in accordo con Sloterdjik, significa innanzitutto l’impossibilità di essere fondamentalisti.

Alla base del fondamentalismo delle tre grandi religioni monoteiste vi è il pensiero monovalente, basato su un linguaggio che non ammette negazioni,  che deriva però dalla possibilità, data dalla logica classica bivalente, che esse vi siano: un’asserzione può essere vera o falsa, tertium non datur.
Secondo il filosofo tedesco “Il pensiero diventa rigido non appena insiste sul fatto che, tra due istanze, solo una può essere quella giusta per noi… Il fanatismo ha la sua origine logica nel non contare oltre il numero uno, il quale non sopporta niente e nessuno accanto a sé. Questo Uno è la madre dell’intolleranza: secundum non datur.”[1] Ora, non voglio dire che Dante fosse un fondamentalista, si è detto che rispettava comunque chi si schierava dalla parte del male (anche se poi lo condannava alle pene eterne), ma il suo era il pensiero bivalente che aveva permesso la nascita del fanatismo. Tuttavia, l’invenzione del Purgatorio[2] – quel terzo luogo dinamico che permetteva di mantenere il controllo sui credenti rispettandone le accresciute esigenze terrene – mostra che tale pensiero già conteneva in nuce, la possibilità del passaggio a quello che per Sloterdjik è il farmaco contro gli estremismi: il pensiero polivalente.

Mentre la logica bivalente non dà altre alternative oltre al sì e al no, “il pensiero quotidiano ha trovato da sempre delle vie verso il tertium datur. Il procedimento universalmente adottato in questo ambito consiste nel togliere radicalità alle alternative: si metta qualcuno dinanzi a un aut aut che gli risulti sgradito e si vedrà come prima o poi questi si trasformerà il compito in un “sia-sia”… Un grigio che è liberazione dal peso di dover scegliere tra bianco e nero[3].

Ecco il primo farmaco che poteva salvare Julian: il pensiero quotidiano, non logico! Ciò che gli avrebbe permesso di passare dal né-né al sia-sia. Una sorta di ignavia positiva, che, secondo Lakoff, è peculiare del cervello umano. Con ignavia innanzitutto non si stiamo parlando di una visione del mondo moderata, o la ricerca della medietà in tutte le cose (tra l’altro Sloterdjik dà un duro giudizio sulla medietà, in Ira e Tempo, cap.4, la chiama “mostro informe”). Per Lakoff non esiste un “centro”, il nostro cervello ha la capacità di tenere insieme i poli contraddittori e usarli a seconda del contesto. Questa capacità è ciò che lui chiama biconcettualismo: “Biconceptualism makes sense from the perspective of the brain and the mechanism of neural computation. The progressive and conservative worldviews are mutually exclusive. But in a human brain, both can exist side by side…[4]. Le rigide opposizioni sono tali solo per il pensiero fondamentalista, monoconcettuale, compreso quello illuminista. D’altronde già Hegel si scagliò contro quella razionalità, per lui propria dell’intelletto, che non riesce a tenere insieme gli estremi; la ragione hegeliana è invece quella che riesce a comprendere e a concettualizzare tutte le istanze umane. Si può dire, in termini moderni, una ragione multiconcettuale.
Ecco, senza questo tipo di ragione il secondo farmaco, che già Spinoza aveva teorizzato, cioè tenere insieme ragione e passioni non può funzionare. Non è sufficiente dire si alla vita se questa non acquista senso, o meglio se non c’è una ragione aperta a tutti i significati possibili. Spinoza nel porcile però tiene conto della ragione di quel tempo, illuminista, ed esorta Julian ad abbandonarla, a seguire il suo impulso, le sue passioni, perché usare solo quella ragione avrebbe sempre favorito il più forte, il tecnocrate: “…una volta che, spiegato Dio, la Ragione ha esaurito il suo compito, deve negarsi: non deve restare che Dio, nient’altro che Dio[5] . Ma negare la ragione e spostarsi solo sul sentimento porta al rifiuto totale, all’azione del santo, sacrificale. Un’azione forse inizialmente necessaria, che dovrà costringere a cercare un’alternativa al mondo dato. In effetti Julian si poteva salvare con due farmaci che potevano essere prodotti solo dopo un’azione di rottura come la sua, condotta dalla sua ignavia; questi sono appunto la ragione multiconcettuale, attraverso la quale “imparare a guardarsi sempre con gli occhi degli altri con una serie di discipline vincolanti dal punto di vista interculturale: la cultura universale[6], e il dar voce alle passioni, cioè valorizzarle come motore della nostra Storia.


[1] Peter Sloterdjik, Il furore di Dio, Raffaello Cortina Editore Milano 2008, pagg. 94-95
[2] Se già i padri della chiesa si erano preoccupati circa un terzo luogo di espiazione dei peccati minori, fu solo nel XII secolo che un teologo parigino, tal Pietro Cantore, inserì nei suoi studi il purgatorio.
[3] Id., pagg. 111-112
[4] Lakoff G., Thinking points: Communicating Our American Values and Vision, cap.2, Paperback 2006
[5] Pasolini P.P., Porcile, in Pasolini Teatro, Mondadori, Milano 2001, pag. 636
[6] Sloterdjik P., Ira e tempo, Meltemi, 2008,  ultima pagina