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Memoria, oblio, vendetta

18 novembre 2008
V for Vendetta, cartoon e cult movie

V for Vendetta, cartoon e cult movie

Parlando della necessità di una de-drammatizzazione post-storica, Sloterdijk introduce una riflessione classica e complessa, nuovamente centrata sul rapporto tra ira e tempo. O meglio, sul rapporto tra il tempo e quel nuovo ospite fisso dell’Occidente che è lo spirito della vendetta. La vendetta ha ovviamente a che fare con la memoria. Con il vissuto sedimentato e “fissato”, inciso nella memoria; il vissuto in quanto engramma, potremmo dire, nell’accezione warburghiana del termine, cioè in quanto segno impresso nella memoria culturale collettiva e individuale. Nel nostro codice culturale elementare, l’engramma “vendetta” sembra potentemente inciso, divenendo anzi uno dei più formidabili engrammi mnemoattivi (come li definisce Sloterdijk) [1] a disposizione della politica e delle tre grandi religioni monoteistiche che insistono sulla nostra cultura. In questo caso, si potrebbe pensare anche all’engramma originario, definito da Richard Semon nel 1904 come traccia mnestica che conserva gli effetti dell’esperienza nel tempo.
Anche per l’insistenza di queste tracce, se coltivate e dissodate periodicamente dal culto del passato, questo – il passato – sembra talvolta non voler passare e l’intera esistenza umana appare come la cima di una memoria cumulativa. Il passato che non passa offre materiali fondamentali per il processo d’identificazione personale e di gruppo, ma anche al rancore ed allo spirito di vendetta: “L’atto di ricordare è collegato anche ad una funzione di salvataggio che permette il ritorno su temi e scene non attuali. Infine è anche un risultato di intrecci con cui il presente, di volta in volta nuovo, s’infila, coattivamente e volutamente, nei più vecchi nodi di dolore”[2]. Ed è così che conserviamo, nelle nostre memorie collettive, una serie di sconfitte e di perdite. Consacriamo loro anche culti, ricorrenze e date: c’è il Giorno della Shoah, che tramanda il ricordo dell’olocausto; c’è l’11 settembre per gli Stati Uniti ed i Paesi alleati, o il 16 ottobre che tramanda la razzìa nel ghetto di Roma. 
Se dunque evidente è il nesso tra memoria e identità, lo  è anche quello tra memoria e risentimento. Ma ha senso elaborare il lutto ad libitum? Sloterdijk forse azzarda, definendo “scuse” di memorie liberatrici e chiarificatrici i riti di rammemorazione dei dolori passati. Tuttavia, che la questione sia delicata lo prova il fatto che da sempre si cerca un punto di equilibrio, impervio e scabro, tra l’esigenza di non dimenticare ed il suo contrario, dimenticare invece, per superare e non fissare l’ira in un perenne rancore che può fungere da collante identitario, ma che fossilizza il trauma anche quando il sentimento del trauma subìto è tramontato, alimentando una vittimologia popolare potenzialmente malsana, se soltanto malinconica e rancorosa. Allora, secondo alcuni, può esser saggio fermare il pendolo. Può essere più liberatorio del ricordo, la sua faccia nascosta – come dice Borges – l’oblio. Anche a prezzo di rinunciare a far giustizia? Quel che è certa, è la necessità di scegliere volta per volta cosa dimenticare, e non di scivolare nell’oblio proprio per non ricordare, nella rimozione. Si deve accettare il lutto del dolore nella consapevolezza, coabitando con la presenza del danno; è ovviamente impercorribile la strada della rimozione che non accetta invece l’onere del dolore. Il lavoro del lutto, insomma, può fungere da eccellente antidoto al sentimento di vendetta.
Secondo Sloterdijk, le tre religioni monoteistiche hanno tutte un rituale centrale di massimo stress, profondamente coinvolgente, in grado di cementare l’appartenenza dei credenti intorno ad un nucleo drammatico, di fortissimo impatto emotivo. Nel caso dell’ebraismo, il deep play (l’azione rituale), il mito primario è la rammemorazione della Pesah, il ricordo dell’operato dell’Angelo Sterminatore che, nella notte cruciale prima dell’esodo, passò oltre le porte degli Ebrei contrassegnate dal sangue dell’agnello, massacrando invece tutti i primogeniti degli Egiziani. Nel caso dei cristiani, il mito fondativo è la contro-Pesah – blasfema agli occhi giudaici – dell’Ultima Cena, in cui il Dio-Uomo si presenta come agnello sacrificale da macellare e consumare, rito “di massimo stress che da più di due millenni continua a garantire ai suoi partecipanti una forma vivissima di partecipazione mnemoattiva” [3]. Vedremo poi quanto ciò abbia a che fare anche con il sentimento di vendetta.


[1] PS, FdD, pag. 36. In psicologia, oggi l’engramma è quella traccia mnemonica depositaria di un certo contenuto informativo e conservata nel tessuto nervoso, che alcuni studiosi ipotizzano per spiegare proprio il fenomeno della memoria.
[2] PS, IeT, pag. 59.
[3] PS, FdD, pag. 32.