Parlando della necessità di una de-drammatizzazione post-storica, Sloterdijk introduce una riflessione classica e complessa, nuovamente centrata sul rapporto tra ira e tempo. O meglio, sul rapporto tra il tempo e quel nuovo ospite fisso dell’Occidente che è lo spirito della vendetta. La vendetta ha ovviamente a che fare con la memoria. Con il vissuto sedimentato e “fissato”, inciso nella memoria; il vissuto in quanto engramma, potremmo dire, nell’accezione warburghiana del termine, cioè in quanto segno impresso nella memoria culturale collettiva e individuale. Nel nostro codice culturale elementare, l’engramma “vendetta” sembra potentemente inciso, divenendo anzi uno dei più formidabili engrammi mnemoattivi (come li definisce Sloterdijk) [1] a disposizione della politica e delle tre grandi religioni monoteistiche che insistono sulla nostra cultura. In questo caso, si potrebbe pensare anche all’engramma originario, definito da Richard Semon nel 1904 come traccia mnestica che conserva gli effetti dell’esperienza nel tempo.
Anche per l’insistenza di queste tracce, se coltivate e dissodate periodicamente dal culto del passato, questo – il passato – sembra talvolta non voler passare e l’intera esistenza umana appare come la cima di una memoria cumulativa. Il passato che non passa offre materiali fondamentali per il processo d’identificazione personale e di gruppo, ma anche al rancore ed allo spirito di vendetta: “L’atto di ricordare è collegato anche ad una funzione di salvataggio che permette il ritorno su temi e scene non attuali. Infine è anche un risultato di intrecci con cui il presente, di volta in volta nuovo, s’infila, coattivamente e volutamente, nei più vecchi nodi di dolore”[2]. Ed è così che conserviamo, nelle nostre memorie collettive, una serie di sconfitte e di perdite. Consacriamo loro anche culti, ricorrenze e date: c’è il Giorno della Shoah, che tramanda il ricordo dell’olocausto; c’è l’11 settembre per gli Stati Uniti ed i Paesi alleati, o il 16 ottobre che tramanda la razzìa nel ghetto di Roma.
Se dunque evidente è il nesso tra memoria e identità, lo è anche quello tra memoria e risentimento. Ma ha senso elaborare il lutto ad libitum? Sloterdijk forse azzarda, definendo “scuse” di memorie liberatrici e chiarificatrici i riti di rammemorazione dei dolori passati. Tuttavia, che la questione sia delicata lo prova il fatto che da sempre si cerca un punto di equilibrio, impervio e scabro, tra l’esigenza di non dimenticare ed il suo contrario, dimenticare invece, per superare e non fissare l’ira in un perenne rancore che può fungere da collante identitario, ma che fossilizza il trauma anche quando il sentimento del trauma subìto è tramontato, alimentando una vittimologia popolare potenzialmente malsana, se soltanto malinconica e rancorosa. Allora, secondo alcuni, può esser saggio fermare il pendolo. Può essere più liberatorio del ricordo, la sua faccia nascosta – come dice Borges – l’oblio. Anche a prezzo di rinunciare a far giustizia? Quel che è certa, è la necessità di scegliere volta per volta cosa dimenticare, e non di scivolare nell’oblio proprio per non ricordare, nella rimozione. Si deve accettare il lutto del dolore nella consapevolezza, coabitando con la presenza del danno; è ovviamente impercorribile la strada della rimozione che non accetta invece l’onere del dolore. Il lavoro del lutto, insomma, può fungere da eccellente antidoto al sentimento di vendetta.
Secondo Sloterdijk, le tre religioni monoteistiche hanno tutte un rituale centrale di massimo stress, profondamente coinvolgente, in grado di cementare l’appartenenza dei credenti intorno ad un nucleo drammatico, di fortissimo impatto emotivo. Nel caso dell’ebraismo, il deep play (l’azione rituale), il mito primario è la rammemorazione della Pesah, il ricordo dell’operato dell’Angelo Sterminatore che, nella notte cruciale prima dell’esodo, passò oltre le porte degli Ebrei contrassegnate dal sangue dell’agnello, massacrando invece tutti i primogeniti degli Egiziani. Nel caso dei cristiani, il mito fondativo è la contro-Pesah – blasfema agli occhi giudaici – dell’Ultima Cena, in cui il Dio-Uomo si presenta come agnello sacrificale da macellare e consumare, rito “di massimo stress che da più di due millenni continua a garantire ai suoi partecipanti una forma vivissima di partecipazione mnemoattiva” [3]. Vedremo poi quanto ciò abbia a che fare anche con il sentimento di vendetta.
[1] PS, FdD, pag. 36. In psicologia, oggi l’engramma è quella traccia mnemonica depositaria di un certo contenuto informativo e conservata nel tessuto nervoso, che alcuni studiosi ipotizzano per spiegare proprio il fenomeno della memoria.
[2] PS, IeT, pag. 59.
[3] PS, FdD, pag. 32.
18 novembre 2008 alle 12:43 PM |
Una segnalazione cinematografica:
Il regista coreano Park Chan-Wook ha dedicato alla vendetta una trilogia; Mr. Vendetta, Old boy, Lady Vendetta.
In particolare Old Boy (che nel 2004 ha vinto il Gran Premio della Giuria a Cannes) ripende i temi dell’oblio e del suo legame con la giustizia e la vendetta, fino ad arrivare al tema della traccia mnestica.
22 novembre 2008 alle 2:55 PM |
La memoria, a volte, può essere fautrice di angosce perenni, un rimuginare castrante che porta il soggetto a coltivare dentro di sé sensi di colpa e contorsionismi mentali che spesso e volentieri sono causa di azioni pre-meditate per lungo – troppo – tempo – ma anche pregne di un’impulsività imprescindibile. Soprattutto se tutto questo viene inserito nell’ambito di sentimenti vendicativi. L’impulso ritardato. Il progetto di vendetta trascinato sino alla perfetta minuziosità del particolare. Ma il tempo è complice in tutto questo? Il rimuginare e ricordare continuamente non fanno altro che delimitare il campo della nitidezza del ricordo. La memoria è “distrattiva e fuorviante”. Con lo scorrere degli attimi, uno dietro l’altro, ci dimentichiamo di ricordare ciò che è stato reale. Modifichiamo e modelliamo il ricordo a nostro piacimento. Le intenzioni vendicative rimangono le stesse. Ma, il rancore e le motivazioni finalizzate alla vendetta aumentano a dismisura. Interiorizzazione del rancore e tempo che scorre: cause entrambe di una crescita “patetica” dell’animale che è in ognuno di noi. Serbare, nascondere, rintuzzare, dissotterrare cadaveri di cattiveria e ingiustizia subiti da ciascuno, ci fa essere sempre più violenti. E ci fa anche comodo “ritardare” la vendetta, in qualche modo. Cito Borges, il quale incide uno schizzo fugace sulla nostra condizione di esseri umani che si “adagiano” sui comodi guanciali del tempo: “il fatto è che viviamo ritardando tutto il ritardabile; forse sappiamo tutti profondamente che siamo immortali e che, presto o tardi, ogni uomo farà tutte le cose e saprà tutto”. E, aggiungerei, legandomi al discorso sopramenzionato, che “ritardando il ritardabile” e crogiolandoci nella possibilità di un domani remunerativo, che separi i giusti dai meno giusti, cresce in noi quella sicurezza palpabile di vedere, una volta per tutte, rivendicati i nostri diritti di uomini che agiscono giustamente.
Dunque sarà necessario dosare equamente la nostra capacità di oblio e memoria. Come abbiamo visto la nostra memoria non è mai totalmente veritiera: semplicemente modificabile e modificata. Il tempo si trova al suo servizio perché lascia che modifichi i ricordi a suo piacimento, ingrandendoli (nel caso di propositi vendicativi) e svelando l’animalità inconscia dell’uomo. Sarà meglio obliare del tutto e lasciare che le immagini dei torti subiti svaniscano completamente o rinvangare quotidianamente il passato e diventare fautori di vendette che surclassino il motivo che le ha scatenate? Nel primo caso ci sentiremo responsabili della nostra leggerezza di giudizio. Saremmo colti da sentimenti di colpa inauditi. Pigrizia in bilico. Azione mancata. Nel secondo caso saremmo pressati da quella “condizione di eterno prigioniero” tipica del Funès borgesiano. Ma un Funès cattivo e “mediocre”, quello che non raccoglie passivamente tutto nella sua memoria enciclopedica, incapace di agire perché paralizzato su una sedia dopo essere stato travolto da un cavallo selvaggio. Un Funès che ha recuperato la mobilità e perso parzialmente la capacità minuziosa di ricordare tutto. E che, presuntuoso, crede di essere sempre nel giusto nel vendicare i torti subiti. Ma saranno davvero quelli?
Forse, la cosa migliore è trovare nella “via di mezzo” la soluzione. Dosare, calibrare e controllare – regolando a volte – oblio e memoria. Per non rischiare di diventare automi superficiali che si adeguano alle regole dell’ipocrisia odierna. Per non rischiare di retrocedere a quello stato di primitività selvaggia qualificata solo negli eccessi.
Questa piccola intrusione nel rapporto memoria e tempo legata al rancore che crescendo si fa vendetta, vuole essere semplicemente solo uno dei tanti punti di vista legati a questo immenso tema dell’ira e della vendetta. Punti di vista. Soggettività che agiscono. Non è, però, qualcosa che possa essere generalizzato. Forse sarebbe meglio dimenticare per non adirarsi. Ma è inevitabile sviluppare del rancore. Il tempo può solo aiutarci a metterlo da parte (definitivamente ?) o coltivarlo fino alle sue conseguenze più estreme: la vendetta.
A questo proposito vorrei consigliare la visione di Memento. Rende chiaramente l’idea del rapporto tra oblio (come vera e propria amnesia) e vendetta (giusta o ingiusta?).