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Vendetta e rivoluzione

24 novembre 2008

Edmond Dantès, il Conte di Montecristo, è il prototipo letterarario del vendicatore; di chi è stato capace di tesaurizzare l’ira per poi dosarla nelle proprie azioni di rivincita per il danno subito. Ci dev’essere quindi a monte l’insulto patito, l’ingiustizia subita, affinché la vendetta assuma anche i connotati di un’azione non solo legittima, ma perfino eroica.  Il vendicatore come personaggio neo-eroico: non solo una tentazione, ma una tendenza del secolo. E se per il piccolo borghese – come l’Alberto Sordi nel film di Monicelli – ci sta anche che il singolo si “faccia giustizia” da solo risarcendosi delle proprie sofferenze, il neo-eroe diviene più popolare e difficile da scalzare se il vendicatore lava un affronto collettivo, se quindi viene a godere di un’investitura dei molti.
Ed è in questo caso che l’azione dell’eroe vendicatore può avanzare una pretesa d’intangibilità dovuta all’instaurarsi di uno stato d’eccezione permanente che consente all’attore (unilaterale e pre-istorico per eccellenza) il diritto all’autodifesa ed alla controffensiva. Se viene delegittimato l’ordine esistente, allora – avverte Sloterdijk – può divenire possibile non tanto e non solo il sartriano diritto a rivoltarsi (on a raison de se révolter) contro l’esistente, ma a vendicarsi su di esso [1].
Se l’ira dunque non scoppia, e viene trattenuta, il suo potenziale aumenta. Chi differisce la propria rabbia, acquista azioni allo sportello della vendetta. Che potrà spendere a tempo debito. L’ira – dice Sloterdijk – diviene momentum di un movimento nel futuro, materia prima dell’eccitazione storica. Il tempo esistenziale heideggeriano può concepirsi compiutamente come un essere-per-la-vendetta. Questa fondazione di un essere-per-lo-scopo sarebbe più forte di qualsiasi vaga meditazione sulla fine. E’ insomma dalla forma progettuale dell’ira che sorge la vendetta. E’ il sentimento di Achille che si organizza, come il pus in un ascesso, per divenire nel tempo forza agente, e prima ancora motivo di quella stessa forza, sua ragione. 
Ed è così che in un’epoca post-metafisica l’esserci vendicativo ottiene un significato metafisico residuale: grazie alla vendetta torna a realizzarsi l’utopia della vita motivata, proprio mentre i più sono inghiottiti invece dal senso del vuoto e dalla noia. Vivere per vendicarsi, al punto da surclassare quel vendicarsi per vivere che Edmond Dantès si era dato come scopo quando ancora strisciava nelle segrete del castello d’If.
La forma bancaria, evoluta dell’ira richiede dunque dai singoli sentimenti vendicativi il loro trattenersi, procrastinarsi in vista di una prospettiva superiore. Se le innumerevoli storie personali di vendetta vengono ad unirsi in una storia congiunta, allora si può costituire il serbatoio dal quale attingere per la Rivoluzione. Ed è a questo livello che si constata il passaggio dalla forma progettuale dell’ira alla sua forma storica;  l’affermazione introduttiva del Manifesto di Marx ed Engels, per cui “la storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi” può essere integrata da un’altra affermazione: “ogni storia è storia della valorizzazione dell’ira”, afferma Sloterdijk
Ovvio quindi che non c’è nemico maggiore, per i banchieri dell’ira ed i loro funzionari, di quei piccoli possessori d’ira anarchici che la bruciano in roghi effimeri, in attentati velleitari, in forme di lotta individualistiche: “la collera del distruttore di cabine e dell’incendiario si consuma nella propria espressione – e che spesso si rigeneri per le dure reazioni della polizia e della giustizia non toglie nulla alla sua cecità. Si limita al tentativo di fracassare la nebbia con un bastone” [2]. Per gli artigiani dell’ira non c’è futuro, non c’è Storia: “il piccolo artigianato dell’ira è condannato ad esaurirsi in passivo in risultati abborracciati. Finché il patrimonio locale delle passioni ribelli non viene riunito in ampi e operanti centri di raccolta e coordinato da una regìa visionaria, tali passioni continueranno a consumarsi nel loro espressivo rumore” [3]. In altri termini, l’economia dell’ira oltrepassa la soglia critica quando dal suo accumulo e dispendio locali trasla ad investimento sistemico. Questa è la fase fondativa del moto rivoluzionario, la fase in cui i risentimenti personali rinunciano ad uno sfogo immediato o comunque singolare e vengono investititi in una banca centrale i cui investimenti sono pensati collettivamente. Il funzionario della banca dell’ira, il rivoluzionario di professione, non esprime le proprie tensioni, ma segue un piano che subordina gli individuali istinti di rivolta alla strategia d’impresa, di partito o di classe o, aggiungerei, di confessione. La capitalizzazione del risentimento va di pari passo con la ritenzione dell’odio. Il direttore di una banca dell’ira, se capace, attizza continuamente la ribellione e parallelamente seda i tentativi di rivolta individual-locali, spegne le micce corte per lasciare che si consumi fino al tempo debito la miccia lunga. Volontarismo e dispendio precoce sono le malattie infantili della rivoluzione adolescente, da correggere senza indulgere a sentimentalismi. Ogni spreco anarchico del deposito d’ira va evitato, e chi brucia in falò di piazza la rabbia di molti, non può che essere considerato un nemico.

[1] PS, IeT, pag. 68.
[2] PS, IeT, pag. 78.
[3] ibidem

Vendette

18 novembre 2008

L’imporsi della vendetta e la sua rivalutazione, post-illuministici, hanno segnato la fine di quell’ecosistema della rassegnazione sul quale hanno prosperato le classi al potere per un millennio e mezzo abbondante. Prima, chi sentiva di aver subito un torto veniva il più delle volte incoraggiato a rassegnarsi alla sua ineluttabilità ed a versare tutt’al più il proprio risentimento nei capaci sportelli delle banche religiose dell’ira che gli avrebbero assicurato un risarcimento sia pure in futuro, appunto nel Dies irae, nel giorno del giudizio, giudizio non a caso consacrato all’ira. Si trattava solo di attendere e la giustizia sarebbe stata ripristinata, anche se non su questa terra ma in quello strano altrove, l’Aldilà, in quella grandezza eterotopica che non appartiene né all’in qualche luogo, né all’in nessun luogo e che tuttavia per il credente resisteva, e resiste, alla semplificazione banale del “da nessuna parte”[1].
Un correlato strettissimo della mancata vendetta è il perdono. Piuttosto che vendicarti, perdona: per secoli il clero cristiano ha contribuito all’omeostasi della rassegnazione attraverso questo caldo invito. Tuttavia, anche il discorso sul perdono è oltremodo complesso, e non è possibile certo affrontare qui la questione della possibilità di una sua etica.
Tornando alla vendetta, naturalmente anche l’Antichità la conosceva. La forza tremenda del sentimento di rivalsa era però connotata negativamente, come tutte le passioni al loro acme, al punto che le dee della vendetta, le Erinni, col tempo sono state educate ad assolvere al loro obbligo a risarcire colpendo solo nel campo dell’oikos, e ad assumere il carattere della giustizia avveduta, propria delle Eumenidi, loro nuovo nome, le benevolenti. Nome che conservano tuttora, in questa post-storia nella quale l’agente è stato scacciato dal Paradiso e all’etica dell’azione si sta sostituendo l’etica della retroazione. Molto più adatte, allora, delle forze benevolenti, eumenidi appunto, pronte a “ricondurre tirandoli per i capelli gli effetti alle loro cause; immerse nei calcoli, pallide di fronte alle analisi dei costi, sperdute in prospetti multifunzionali, sprofondate negli abissali contrari di karma e statistica, impegnate a bilanciare i danni provocati e a pronosticare ulteriori perdite nel caso che le cose continuino ad andare come sono cominciate”[2]. Delle Erinni pettinate e che hanno frequentato un master alla Bocconi o magari un post-graduate alla Harvard Law School, pronte a fiancheggiare responsabilmente il nuovo ordine multilaterale.

La vendetta – dal Settecento in poi, volendo fare delle date – ha quindi scosso e rotto quell’ordine della rassegnazione prima imperante. Una galleria impressionante di vendicatori percorre la modernità, sia nella realtà che in quell’altra realtà che è l’arte. Se innumerevoli sono stati i singoli che si sono presi la briga di lavare i torti e le ingiustizie, Sloterdjk ricorda però che soltanto nel Novecento uno Stato ha scelto di avocare a sé un’azione vendicativo-romantica. E’ accaduto dopo l’attacco del commando palestinese di Settembre Nero durante le Olimpiadi di Monaco nel 1972, quando il Primo Ministro israeliano, Golda Meir, incaricò il Mossad di individuare e uccidere tutti i componenti del commando. L’operazione fu denominata “Ira di Dio”, invadendo il campo – come vedremo presto – del vindice per eccellenza, Dio appunto.

Eumenidi

Eumenidi

 Ma non a caso, poiché il Governo israeliano intendeva arrogarsi quella punizione divina che popolarmente molti gradirebbero venisse appunto trasferita dal titolare del Giudizio Universale a noi uomini, o ai nostri Governi rappresentanti. Vero è che c’è chi si sente autorizzato ad agire per delega, saltando – diciamo così – alcuni passaggi nella catena delle responsabilità, colpendo in nome e per conto del suo Dio. E’ stato così per gli anarchici di fine Ottocento e primo Novecento, le cui azioni tendevano (o almeno, miravano)  ad essere interpretate dal popolo come segni entusiasmanti della vendetta contro gli oppressori. E’ in parte così per alcuni dei movimenti estremistici islamisti che giudicano il terrore strumento adeguato per vendicarsi del torto di chi ha tradito Dio, non convertendosi. Non a caso al Qaeda ha subito chiesto alla nuova amministrazione di Obama di convertirsi, unico modo per sottrarsi alla Jihad.

E’ del tutto evidente allora che chi è impiegato in una di queste banche dell’ira ha da tempo affogato quel furor che – con Seneca – legava ira e tempo nell’attimo, nello scoppio, nel divampare della rabbia. Lo avevamo visto già in Achille, la cui ira si trasforma presto in risentimento e rancore, irrigidendolo nella non-azione, prima che l’ansia di vendetta non lo farà tornare ad incontrare il suo destino davanti alle Porte Scee. L’ira dunque può bloccare, cristallizzare nell’inazione, mentre la vendetta – anche se coltivata a lungo nel cuore, come in Odisseo – è lei la forza agente, il vettore che trascina fuori di sé e che spinge il rivoluzionario-funzionario della banca dell’ira a dare espressivo rumore ai propri sentimenti timotici repressi.

Castello d'If, prigione del Conte di Montecristo

Castello d'If

Tra le mille trasposizioni letterarie e cinematografiche della vendetta, Sloterdijk ne sceglie due: Il Conte di Montecristo, di Alexandre Dumas, tra i romanzi e C’era una volta il west, di Sergio Leone, tra i film. Edmond Dantès è il prototipo del vendicatore, di chi si fa giustizia da sé, travolgendo con la propria ira pianificata i suoi nemici, ira resa efficace grazie alla sua accurata procrastinazione che infine schiaccia i suoi antichi persecutori. Un’ira che si mantiene, anzi: che cresce e si sostanzia nel tempo, e che al dunque diviene maglio infallibile.
Armonica (Charles Bronson)

Armonica (Charles Bronson)

Armonica (Charles Bronson)

vota anch’egli la propria vita ad una nemesi privata, per vendicarsi dell’Ingiusto, Frank (Henri Fonda)

Frank (Henry Fonda)

Frank (Henry Fonda)

che gli aveva messo sulle spalle il fratello col cappio al collo, fino al non poter più sostenerlo e colpevolizzandolo così per l’assassinio del fratello maggiore. Ma gli esempi sono innumerevoli: Sloterdijk ne cita di cinematografici, come Black Mamba (Uma Thurman), la protagonista di Kill Bill, e ovviamente John Rambo, oltre a Ben Hur. Tutti giustizieri per cause patentemente giuste e ultra-private. Ma la tentazione giustizialista alligna soprattutto tra le singolarità: dal piccolo borghese interpretato dal Sordi al quale hanno ucciso il figlio in una rapina, al Michael Douglas di Falling down (Un giorno di ordinaria follia), fino alla schiera di machos tutti di un pezzo (tra i quali il Governatore Schwarzenegger e il secondo Clint Eastwood) pronti a vendicarsi per  torti subiti in prima persona, o dai loro cari.
“E’ capitato anche a persone civili di tirare contro un muro un libro che odiano. Ma per chi non riesce a frenarsi, c’è solo un piccolo passo da lì all’atto di caricare una pistola. Oppure, forse loro odiano sinceramente quello che uno è, il mondo in cui lo percepiscono… come sappiamo dai moventi dei terroristi delle Torre Gemelle. C’è un bel po’ di rabbia là fuori.
LEI  Sì, c’è rabbia, una rabbia pazzesca e senza pari.
LUI  E questa rabbia la sta facendo morire di paura”.
Questo breve dialogo è tratto dal penultimo romanzo di Philip Roth, Il fantasma esce di scena (Exit Ghost) [3]. C’è un bel po’ di rabbia lì fuori. Ed il percepire la rabbia spaventa. La rabbia degli altri è specchio della nostra, ed entrambe producono paura. La tentazione oscilla allora tra il vendicarsi direttamente, oppure demandare la vendetta al risentimento, sentimento reazionario, a suo modo altamente produttivo, diretto contro tutto ciò che si autopone e che in ultimo conduce al nihilismo. Vedremo presto quanto frutti il rancore in termini politici, se bene investito.

 


[1] Peter Sloterdijk (2007), Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, pag. 14. Da ora, citato come PS, FdD.
[2] Peter Sloterdijk (2005), Il mondo dentro il capitale, Meltemi Editore, Roma 2006, pag. 243.
[3] Philip Roth (2007), Il fantasma esce di scena, Einaudi, Torino 2008, pag. 107.

mè mnesikakein

18 novembre 2008

Le vicende successive alla vicenda dei 30 Tiranni, nell’Atene del 403 avanti Cristo segnano un discrimine ed un precedente nel rapporto tra democrazia e giustizia. Abbattuta la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a “deporre il risentimento” (mè mnesikakein, letteralmente “non ricordare i mali”) nei confronti dei suoi avversari sconfitti. I democratici riconoscevano che vi era stata una stasis, una guerra civile e che s’imponeva adesso un momento di non-memoria, e di conseguente amnistia per riconciliare la città. Malgrado l’opposizione dell’ala democratica radicale che, come Lisia, esigeva la punizione dei Trenta, il giuramento passò. Gli Ateniesi quindi sospesero i loro “cattivi ricordi”, senza con ciò dimenticare l’accaduto, ma lasciando cadere il risentimento. L’amnistia sanciva la necessità, per i cittadini democratici duramente provati dalla tirannide dei Trenta, di non vendicarsi del male subito e, di conseguenza, di perdonare ai nemici le colpe commesse, in nome di un superiore ideale di concordia civica, ritenuto di primario interesse per la città: all’opposto, si riteneva che dare corso alla vendetta avrebbe scatenato una spirale di violenze e di contese giudiziarie difficilmente arginabile.

Atene, Teseion

Atene, Teseion

Studi recenti su Trasibulo – l’artefice della liberazione democratica di Atene dalla tirannide dei Trenta – e sull’ispirazione della sua prassi politica, hanno messo in luce caratteri originali ed innovativi del suo agire politico. L’accento cade in particolare sulla sua valorizzazione del perdono reciproco come strumento di ricomposizione sociale e politica della comunità civica, dopo le gravi fratture determinate dalla crisi costituzionale e dalla guerra civile. Questa prassi supera la tradizionale etica della vendetta a vantaggio di un approccio nuovo al problema della ricomposizione dei contrasti politici più gravi, sostanziandosi di ideali non solo politici, ma anche religiosi.
Sostanzialmente, l’amnistia fu osservata, ma vi furono diversi tentativi di violazione e di aggiramento (come ci testimoniano Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi 40, 2 ed Isocrate XVIII, 2). Particolarmente duro e contrario a possibili “colpi di spugna” fu l’atteggiamento di Lisia nei confronti dell’applicazione indiscriminata dell’amnistia del 403, criticando le modalità di applicazione delle convenzioni e le clausole che regolavano il diritto di godere della protezione amnistiale. Pur convinto del valore dell’amnistia, Lisia oppone al tema dell’oblio dei mali subiti la convinzione che serva conservare invece la memoria, e che questa imponga non tanto la vendetta, quanto la giustizia. Lisia valuta appieno i rischi connessi con un’applicazione troppo generosa dell’amnistia, non proponendo mai tuttavia una contestazione di principio dell’amnistia stessa, difesa in quanto strumento di recupero della convivenza democratica. Secondo Lisia, compito dei democratici era applicare le convenzioni d’amnistia, con la massima sensibilità, ai singoli casi, assicurando il perdono solo a chi ne avesse davvero diritto, vale a dire a quanti non si erano piegati a collaborare fattivamente con il regime dei Trenta. Lisia, diremmo oggi, voleva evitare generalizzazioni “garantiste” che si risolvessero in una eccessiva generosità verso chi aveva condiviso responsabilità di governo e si era reso complice di reati contro i concittadini.

In sostanza, “l’atteggiamento del mondo politico ateniese di fronte all’amnistia appare dunque tutt’altro che unanime. Alla rivendicazione della necessità dell’oblio per poter procedere, attraverso il perdono, alla riconciliazione nazionale, si contrappone quella della necessità della memoria, presupposto della vendetta (se pure per via rigorosamente giudiziaria) e della riaffermazione della giustizia, senza la quale non appare possibile una vera ricomposizione delle fratture civiche. Entrambe queste prospettive, di carattere politico, non possono essere scisse da questioni religiose. L’oblio voluto da Trasibulo sembra trovare il suo fondamento etico nelle suggestioni religiose promananti dalla pietà eleusina; la memoria richiesta insistentemente da Lisia rimanda invece all’etica tradizionale legata alla religione olimpica”[1].

Nelson Mandela

Nelson Mandela

La formula greca di riconciliazione del mè mnesikakein, nata nella democrazia ateniese di fine V secolo, è stata richiamata periodicamente dagli eventi più drammatici del Novecento: per esempio, dalla memoria dell’Olocausto; dall’amnistia promossa da Togliatti per i fascisti nell’Italia repubblicana del dopo-guerra e dall’attività della Truth and Reconciliation Commission (TRC) nel Sud Africa del presidente Mandela. In forme diverse tra loro, si è ripresentata la stessa domanda della vicenda ateniese sulla validità delle soluzioni proposte, riproponendo in tutta la sua complessità la dialettica fra memoria, perdono ed oblio. 

La questione si fa ancor più tesa e ardente se rapportata alla realtà italiana e all’oggi.  Giorgio Agamben è tra chi ha propugnato una posizione “alla Trasibulo” nei confronti dei protagonisti degli “anni di piombo”.

via Fani

via Fani

Undici anni fa Agamben scriveva su “il manifesto”: “Non sorprende, allora, che la nostra classe politica non possa pensare l’amnistia, non possa deporre i propri “cattivi ricordi”. Essa è condannata al risentimento, perché in Italia l’eccezione è veramente divenuta la regola e paese “normale” e paese eccezionale, storia passata e realtà presente sono diventati indiscernibili. Di conseguenza, ciò che dovrebbe essere oggetto di memoria e di indagine storica, viene trattato come un problema politico presente (autorizzando il mantenimento delle leggi speciali e della cultura dell’emergenza) e ciò che dovrebbe essere oggetto di una decisione politica (l’amnistia) viene invece trattato come un problema di memoria storica. L’incapacità di pensare che sembra oggi affliggere la classe politica italiana e, con essa, l’intero paese, dipende anche da questa maligna congiunzione di una cattiva dimenticanza e di una cattiva memoria, per cui si cerca di dimenticare quando si dovrebbe ricordare e si è costretti a ricordare quando si dovrebbe saper dimenticare. In ogni caso, amnistia e abrogazione delle leggi speciali sono le due facce di un’unica realtà e non potranno essere pensate se non insieme. Ma per questo sarà necessario che gli italiani riapprendano il buon uso della memoria e dell’oblio”.
Personalmente, ritengo che l’Italia viva sì uno stato di eccezione, ma non a causa delle leggi speciali promulgate negli anni del terrorismo. Non credo opportuno tuttavia invocarlo per amnistiare i protagonisti delle azioni dei gruppi di fuoco che negli anni Settanta e Ottanta del Novecento hanno contribuito come prima causa all’arretramento della nostra democrazia. Evidentemente, si tratta di un punto delicato e controverso, sul quale ogni coscienza civile è chiamata a farsi un’opinione ed a confrontarsi con quella degli altri. La dialettica tra memoria, risentimento ed oblio è ancora una pietra di scandalo.


[1] Cinzia Bearzot, Memoria e oblio, vendetta e perdono nell’Atene del 403 a.C. http://rivista.ssef.it/site.php?page=20060421101704843&edition=2006-04-01

Memoria, oblio, vendetta

18 novembre 2008
V for Vendetta, cartoon e cult movie

V for Vendetta, cartoon e cult movie

Parlando della necessità di una de-drammatizzazione post-storica, Sloterdijk introduce una riflessione classica e complessa, nuovamente centrata sul rapporto tra ira e tempo. O meglio, sul rapporto tra il tempo e quel nuovo ospite fisso dell’Occidente che è lo spirito della vendetta. La vendetta ha ovviamente a che fare con la memoria. Con il vissuto sedimentato e “fissato”, inciso nella memoria; il vissuto in quanto engramma, potremmo dire, nell’accezione warburghiana del termine, cioè in quanto segno impresso nella memoria culturale collettiva e individuale. Nel nostro codice culturale elementare, l’engramma “vendetta” sembra potentemente inciso, divenendo anzi uno dei più formidabili engrammi mnemoattivi (come li definisce Sloterdijk) [1] a disposizione della politica e delle tre grandi religioni monoteistiche che insistono sulla nostra cultura. In questo caso, si potrebbe pensare anche all’engramma originario, definito da Richard Semon nel 1904 come traccia mnestica che conserva gli effetti dell’esperienza nel tempo.
Anche per l’insistenza di queste tracce, se coltivate e dissodate periodicamente dal culto del passato, questo – il passato – sembra talvolta non voler passare e l’intera esistenza umana appare come la cima di una memoria cumulativa. Il passato che non passa offre materiali fondamentali per il processo d’identificazione personale e di gruppo, ma anche al rancore ed allo spirito di vendetta: “L’atto di ricordare è collegato anche ad una funzione di salvataggio che permette il ritorno su temi e scene non attuali. Infine è anche un risultato di intrecci con cui il presente, di volta in volta nuovo, s’infila, coattivamente e volutamente, nei più vecchi nodi di dolore”[2]. Ed è così che conserviamo, nelle nostre memorie collettive, una serie di sconfitte e di perdite. Consacriamo loro anche culti, ricorrenze e date: c’è il Giorno della Shoah, che tramanda il ricordo dell’olocausto; c’è l’11 settembre per gli Stati Uniti ed i Paesi alleati, o il 16 ottobre che tramanda la razzìa nel ghetto di Roma. 
Se dunque evidente è il nesso tra memoria e identità, lo  è anche quello tra memoria e risentimento. Ma ha senso elaborare il lutto ad libitum? Sloterdijk forse azzarda, definendo “scuse” di memorie liberatrici e chiarificatrici i riti di rammemorazione dei dolori passati. Tuttavia, che la questione sia delicata lo prova il fatto che da sempre si cerca un punto di equilibrio, impervio e scabro, tra l’esigenza di non dimenticare ed il suo contrario, dimenticare invece, per superare e non fissare l’ira in un perenne rancore che può fungere da collante identitario, ma che fossilizza il trauma anche quando il sentimento del trauma subìto è tramontato, alimentando una vittimologia popolare potenzialmente malsana, se soltanto malinconica e rancorosa. Allora, secondo alcuni, può esser saggio fermare il pendolo. Può essere più liberatorio del ricordo, la sua faccia nascosta – come dice Borges – l’oblio. Anche a prezzo di rinunciare a far giustizia? Quel che è certa, è la necessità di scegliere volta per volta cosa dimenticare, e non di scivolare nell’oblio proprio per non ricordare, nella rimozione. Si deve accettare il lutto del dolore nella consapevolezza, coabitando con la presenza del danno; è ovviamente impercorribile la strada della rimozione che non accetta invece l’onere del dolore. Il lavoro del lutto, insomma, può fungere da eccellente antidoto al sentimento di vendetta.
Secondo Sloterdijk, le tre religioni monoteistiche hanno tutte un rituale centrale di massimo stress, profondamente coinvolgente, in grado di cementare l’appartenenza dei credenti intorno ad un nucleo drammatico, di fortissimo impatto emotivo. Nel caso dell’ebraismo, il deep play (l’azione rituale), il mito primario è la rammemorazione della Pesah, il ricordo dell’operato dell’Angelo Sterminatore che, nella notte cruciale prima dell’esodo, passò oltre le porte degli Ebrei contrassegnate dal sangue dell’agnello, massacrando invece tutti i primogeniti degli Egiziani. Nel caso dei cristiani, il mito fondativo è la contro-Pesah – blasfema agli occhi giudaici – dell’Ultima Cena, in cui il Dio-Uomo si presenta come agnello sacrificale da macellare e consumare, rito “di massimo stress che da più di due millenni continua a garantire ai suoi partecipanti una forma vivissima di partecipazione mnemoattiva” [3]. Vedremo poi quanto ciò abbia a che fare anche con il sentimento di vendetta.


[1] PS, FdD, pag. 36. In psicologia, oggi l’engramma è quella traccia mnemonica depositaria di un certo contenuto informativo e conservata nel tessuto nervoso, che alcuni studiosi ipotizzano per spiegare proprio il fenomeno della memoria.
[2] PS, IeT, pag. 59.
[3] PS, FdD, pag. 32.