Ma il ritorno al passato, al certo, al conchiuso, non comporta affatto un rinsaldarsi della saggezza locale, del genius loci. Anzi: tra gli sradicati riterritorializzati vi è scarsità di saggezza (Bonomi), nel senso che non vi è esperienza delle novità, esperienza che toglierebbe il carattere di nuovo assoluto – neutralizzandone il potere di choc – al migrante, all’altro, ad una politica sconosciuta perché deideologizzata e secolarizzata: “l’esperienza dovrebbe essere la risorsa attraverso cui le società locali riescono a metabolizzare la modernità; la sua mancanza espone invece queste società ai traumi della novità”[1].
Il che contribuisce a spiegare perché tante emergenze. Perché c’è l’emergenza-immigrati, l’emergenza nomadi, l’emergenza traffico, l’emergenza rifiuti? E’ proprio la mancanza di esperienza a far leggere gli eventi sempre in chiave emergenziale: tutto vien visto e vissuto come qualcosa di inedito, di sorprendente, anche se il più delle volte si tratta di eventi acuiti invece proprio dall’inesperienza nel gestire pratiche amministrative e socio-politiche assolutamente normali per una modernità che non si svegli, come Aligi, dopo un sonno di cinquant’anni.
Nel corso degli anni Novanta, si è verificato al Nord Italia un progressivo disallineamento tra livello economico e livello politico. Ancor più ciò è vero a livello di vissuto: la gente del Nord ha creduto, ha sentito di non essere adeguatamente rappresentata politicamente per quanto produceva. Com’è noto, la Lombardia fruisce dell’11% degli investimenti pubblici in Italia, a fronte di un’incidenza sul PIL del 20% e di una popolazione che rappresenta il 16% dell’intera popolazione italiana. Da qui la richiesta sempre più pressante del cosiddetto federalismo fiscale.
La sensazione di contare poco in rapporto al proprio peso economico si è tradotta, con un cortocircuito, nell’accusa d’incompetenza verso le leadership nazionali. Un’accusa formulata in toni spesso astiosi, figlia del risentimento. Rancore e risentimento sono stati i sentimenti-chiave per molti degli italiani del Nord negli anni Novanta: “il rancore come forma politica di massa prolifera proprio in coincidenza con la sindrome da abbandono che i fallimenti della politica possono causare”[2].
E Bonomi a questo punto si chiede: “può una società afflitta da esaurimento esprimere ancora passioni, posto che le passioni sono una risorsa vitale per la società?”[3]
La risposta va nel segno che questo corso sta cercando fin dall’inizio di sostenere: che le grandi passioni vanno a braccetto col grande Fare (per fare solo un esempio, l’ambito che Heidegger aveva individuato nel Saggio sull’opera d’arte come proprio appunto dell’arte e della politica costituzionale), mentre al riprodurre, ai meccanismi della riterritorializzazione si addicono di più passioni piccole e fredde: “quanto basta, cioè, per ricondurre la discontinuità alla loro stessa scala e, al contempo, mantenere una riserva di affettività da investire nelle tante appartenenze della vita sociale”[4].

Peter Sloterdijk
La società del Nord, quindi, tra la fine degli anni Novanta ed oggi ha espresso passioni che, nello schema suggerito da Sloterdijk, potremmo intanto definire timotiche, e non erotiche, e poi – valutandone il gradiente – considerare con Bonomi “piccole e fredde”: l’ira di Borghezio non è paragonabile all’ira di Achille…
Bonomi ritiene che al centro vada posto il nesso tra passioni e interessi. E che il Nord non abbia semplicemente optato per gli interessi contro le passioni, ma abbia dislocato queste ultime dalla sfera politica a quella economica. Ma è proprio questo dislocamento che depotenzia le passioni e, soprattutto, le vira verso il bordo erotico, escludendo il timotico: le grandi passioni timotiche, appunto, sono legate alla Politica e si ridimensionano molto quando devono esprimere la vis economica, anche degli stessi soggetti.
Tuttavia, c’è chi è riuscito ad intercettare la carica emotiva delle passioni timotiche forti prima che scadessero nell’economico, depotenziandosi. Il movimento che meglio ha saputo farlo – come abbiamo visto – è stata la Lega Lombarda, poi Lega Nord.
Oggi la Lega, nonostante i suoi consistenti risultati elettorali, appare in trincea. Non esprime più la novità dei distretti produttivi del Nord, non rappresenta più la politica gregaria dello sviluppo autoregolato dalla società civile, come negli anni Novanta. Il localismo non appare più sufficiente a sostenere la sfida della globalizzazione, la necessità di dar vita ad euroregioni a cavallo delle frontiere. Inutile illudersi di rispondere localisticamente allo spiazzamento generato dall’irrompere della globalizzazione sul territorio ed al contemporaneo affievolirsi dello Stato-nazione. Occorrerebbe piuttosto elaborare quelle strategie di accettazione della sfida globale che Bonomi definisce “lobal“, coniugando localismo e globalità.
Per fare un esempio, un’azienda della Valsassina – Premana – respinge la concorrenza cinese ed è leader nella produzione di forbici e coltelli. Altri esempi potrebbero essere l’Aem e la Sondel, nate per costruire dighe ed ora “padrone” dell’oro bianco alpino, cioè delle acque. Un altro esempio ancora è Ducati, nata e cresciuta nel distretto emiliano e passata di mano un paio di volte, ma che al di là di Stoner e delle vittorie nel Mondiale Moto GP ha imposto un modello ricco di componenti immateriali (di marketing, valoriali ed emotive) oltre che tecnologiche. Tutte realtà economiche ma non in senso asfittico, capaci di utilizzare al meglio i beni competitivi territoriali (le risorse locali per i quali non si paga un prezzo aggiuntivo) e le fabbriche del capitale umano e della conoscenza, come le università e gli uffici-studi.
Come Sloterdijk titola il suo ultimo capitolo in Ira e tempo, occorrerebbe andare al di là del risentimento. Certo, è difficile, perché l’ira non può più condensarsi in raccolte universali di tipo comunistico, e sarebbe meglio non cedere al ricatto antisecolare delle religioni monoteistiche ed alle loro pretese di universalità che piuttosto che una soluzione costituiscono esse stesse una parte rilevante del problema.
Possibile allora che l’ira si faccia strada soltanto in raccolte di tipo local-regionalistico? Sloterdijk propone piuttosto di far nostro il programma igienico nicciano di liberazione dallo spirito del risentimento. Una intelligenza che si sia nuovamente riappropriata delle proprie legittime motivazioni timotiche; che sia insomma orgogliosa di sé, forte di un amor proprio scevro da propositi di vendetta, potrebbe aspirare a delineare progetti meno asfittici, capaci di accompagnare il mondo nel cambiamento, senza dare per perse le battaglie contro la distruzione dell’ambiente e contro la demoralizzazione strisciante. Per riuscirci, dovremmo sempre guardarci con gli occhi degli altri – propone Sloterdijk[5]. L’obbiettivo resta classico: estendere la civilizzazione, così come la intendeva Thomas Mann, promuovere insomma una cultura il più possibile universale. Una cultura che sfugga all’alternativa attuale tra una proposta occidentale ipererotizzata ed una medioorientale ipertimotica, devastata dal risentimento.
[1] Aldo Bonomi, Il rancore, cit., pag. 29.
[2] Ivi, pag. 63.
[3] Aldo Bonomi, Il rancore, cit., pag. 31.
[4] Ibidem.
[5] PS, IeT, pag. 273.
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22 gennaio 2009 alle 1:30 am |
Mi accorgo sempre più, leggendo il testo ”Ira e tempo” di Sloterdijk ma anche i post scritti fin qui su questo tema, quanto lo stesso autore non prenda quasi mai in considerazione l’ipotesi della funzione incredibile del perdono. Attacca l’orgoglio, eppure esso si potrebbe mettere da parte per una soluzione diciamo più civile. Quasi impossibile vedere questo tipo di atteggiamento nell’essere umano ma non bisogna sottovalutare il potere del perdono. Quindi penso che la liberazione dallo spirito del risentimento possa avvenire con questa funzione, bastrebbe applicarsi ognuno di noi. Non c’è nulla di apocadittico o religioso nelle mie parole, però guardando il testo mi sono chiesto perchè il filosofo tedesco non prenda in considerazione ciò. Sicuramente interessante prendere in esame l’ira, o meglio vendetta, dello stesso Dio, la quale possa essere soggettiva( proviene dal Signore, come può essere un’eventuale giorno del giudizio) o oggettiva (l’uomo che fa le veci dell’essere supremo), ma non bisogna neanche trascurare anche la via del perdono dello stesso Dio, in varie occasioni lo ha dimostrato. Così è anche tra gli esseri umani, tra amici, tra padre e figlio, tra uomo e donna. Quindi mi chiedo se la cultura del perdono possa essere una via o soluzione per fuggire dallo spirito di ”rassentment”. Questa intuizione mi è venuta guardando un sito che spiega proprio il perdono! Nell’uomo questo sentimento è stato spesso lacerato a favore della vendetta.
Vorrei riportare solamente le fasi del processo del perdono incredibilmente scomparse nel buio:
* Decidere di perdonare
– È una decisione cosciente che l’individuo ha bisogno di prendere, anche se sa di non essere in grado di perdonare l’offesa ricevuta. Decidere di perdonare, come suggerisce Louise Hay significa predisporsi a farlo anche se non si è ancora in grado e non si sa come realizzarlo. Come dice Louise Hay “L’Universo si occuperà di aiutarci”.
– La decisione non può essere presa senza aver almeno in “parte scoperto” e conosciuto la chiave di accesso al proprio dolore e alle offese fatte alla nostra persona nell’infanzia e nell’utero.
– Scoprire i propri difetti comportamentali e caratteriali derivati dalla relazione con nostra madre e con nostro padre come conseguenza delle difese protettive inconsce messe in atto e del meccanismo inconscio di identificazione introiettiva che Freud definisce come madre e padre introiettati.
– Trasformare la complicità e l’indulgenza inconscia che abbiamo con tali difetti in accettazione amorosa cosciente, attraverso il perdono del nostro Bambino interiore e contemporaneamente verso il nostro adulto identificato nel genitore introiettato.
– Vanno tuttavia tenuti ben distinti l’adulto identificato e il bambino interiore, perché NOI SIAMO IL BAMBINO INTERIORE E NON L’ADULTO IDENTIFICATO CON I GENITORI che è la nostra parte deformata e la causa delle nostre attuali sofferenze. Tenete ben presente che nessuno conosce il proprio Bambino Interiore e tutti credono che la loro parte autentica sia invece l’adulto.
* Trasformazione della complicità in perdono:
– Perdonarsi significa scusare il proprio difetto comportamentale perché esso ci ha salvato da piccoli, ma fare costanti strategie, progetti, ragionamenti, propositi autentici per sciogliere piano, piano il difetto che ci riconosciamo.
– Complicità invece significa scusarsi il difetto ma in modo falso e superficiale, oppure sentirsi in colpa in modo superficiale, al solo scopo di dimenticarsene subito fino alla prossima manifestazione dello stesso difetto comportamentale.
* Per sapere se stiamo seguendo
– il processo di complicità o di perdono, abbiamo una metodica speciale da mettere in atto, cioè, aiutarci con frasi di perdono e fiducia dette ad alta voce al nostro Bambino interiore, con la necessaria autenticità che ci è consentita in quel momento, al fine di amarlo e perdonarlo come insegna Louise Hay, verificando attraverso il “sentire profondo” se il grado e la percentuale di perdono rispetto alla complicità stia aumentando nel tempo, oppure rimanga inalterata.
– Il sentire interno profondo, quando ci diciamo frasi amorose e di perdono ad alta voce, diventa un validissimo termometro per misurare il progredire del processo di perdono del Bambino Interiore e passare pian piano dalla totale complicità ad un profondo amore per noi stessi.
– Altro importante test di controllo è vedere con occhi autentici i fatti e i comportamenti della nostra vita attuale in riferimento al difetto in considerazione al momento; se i comportamenti migliorano nel tempo stiamo procedendo bene, se ci comportiamo sempre nello stesso modo, non stiamo lavorando sufficientemente bene per aumentare il perdono e ridurre la complicità.
Insomma la domanda è: Può essere una via importante nello sviluppo per un comportamento migliori agli occhi della società? Può essere una via da applicare per vivere meglio con noi stessi e gli altri? Il perdono può sostituire il risentimento?
3 febbraio 2009 alle 5:52 PM |
Non che non mi trovi d’accordo con Federico riguardo il poco spazio concesso alla questione del perdono in Ira e Tempo, ma mi sento di dover dire che forse, se ci aspettiamo di trovare il perdono in una posizione privilegiata, all’interno di un opera che parla del risentimento, è per una certa deformazione cristiana (cattolica) ricevuta.
E con deformazione non intendo solo quella assunta tramite l’educazione catechistica che non tutti possono dire di aver ricevuto, ma anche attraverso una certa cultura popolare (fatta di film, telefilm, talk show, cartoni e quant’altro) che non perde mai occasione di promuovere la funzione pedagogica del perdono.
Ovviamente il riferimento (esplicito perchè citato spesso da Slotedjik) è Nietzsche, quel Nietzsche “troppo ben educato” per sfuggire alla critica che lui stesso muove allo spirito occidentale. Ci ritroviamo in questo senso a combattere quegli spettri che volevamo definitivamente allontanare.
Credo che Sloterdjik con Ira e Tempo punti invece a sottolineare come anche il perdono, rientri alla fin fine all’interno di un punto di vista escatologico che, in quanto tale, è funzionale alla gestione/conservazione/trasformazione dell’ira. L’ira di tutti quelli che in fondo si sentono in credito nei confronti della società. Inoltre credo che in Ira e Tempo la questione dell’ira sia osservata più sul fronte del desiderio di rivalsa nella società (nei gruppi di persone, come nelle classi sociali) che sul fronte individuale. Anche se le due questioni si sovrappongono certamente.
Infine penso che Sloterdjik abbia ben in mente il percorso di Nietzsche quando parla dell’ira. Quest’ultimo infatti più che al perdono aveva pensato all’oblio (declinato come probabilmente farebbero gli orientali). Il rischio di una cattiva gestione dell’ira, laddove cerchiamo di perdonare (come giustamente ha osservato Federico non possiamo certo “scegliere” di perdonare così su due piedi), è di rivolgere la rabbia contro noi stessi, sopire quella volontà di potenza che ci direbbe altrimenti di non farci mettere i piedi in testa, di non farci sottomettere.
Da un punto di vista strettamente personale posso dire che cercare di perdonare mi abbia in alcuni casi sollevato da un peso, in altri spinto solo a rimandare un confronto comunque necessario, altrimenti mi è risultato semplicemente impossibile (o comunque mi ha dato meno soddisfazione che rivalermi).
C’è comunque un punto di contatto tra perdono e vendetta che non è stato indagato a sufficienza (o non è stato indagato affatto) ovvero quello che Sloterdjik chiama “dono”, “fare dono di sè”. Rispondiamo insomma al torto senza sottrarci all’ incontro/scontro con gli altri, persino facendoci avanti noi stessi e chiedendo una risoluzione. Sarebbe allora interessante osservare come si configura questo dono di sè nella società della tecnica, se è ancora veramente possibile.