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Breve storia dell’ira, 1

3 novembre 2008
Breve storia dell’ira

 

Riprendiamo con una breve storia dell’ira. O meglio: con una breve storia della proscrizione dell’ira, del suo sparire dalle virtù e del suo entrare nel novero dei difetti e dei peccati. Della sua domesticazione, come la definisce Sloterdijk.
Innanzitutto, prima di considerarla una merce, l’ira è una passione e come tale soggiace alla condanna generale che la cultura in occidente come in oriente ha inflitto per millenni alle passioni, in quanto fattori di turbamento o di perdita temporanea o definitiva della ragione. Condanna caduta in prescrizione nel Novecento grazie a Freud, se proprio si deve fare un nome. Come capì Thomas Mann, dobbiamo infatti allo scopritore dell’analisi del profondo, prosecutore ideale dell’opera di Nietzsche, la possibilità di poterci occupare delle passioni senza passare per dei romantici o per cultori reazionari del mito. Dopo Freud, è pienamente legittimo inserire in uno stesso orizzonte di senso passioni e ragioni, non più divise su fronti opposti in un’arena che solo ammetta lo scontro tra le prime in quanto disordine, ombra e assenza di logica e le seconde, anzi: la seconda, la Ragione al singolare, in quanto logica, ordine, luce. Come dice Remo Bodei – che a questo tema da lunghi anni dedica importanti considerazioni -, “si potrebbe interpretare questo rapporto, semmai, quale conflittualità tra due logiche complementari, che operano secondo lo schema del ‘né con te, né senza di te” [1].
Non dobbiamo però certamente solo a Freud la considerazione moderna per le passioni e la loro riabilitazione. Si è già nominato Nietzsche, e se la sfera delle passioni è stata sdoganata appunto dal padre della psicoanalisi su di un piano, diciamo così, produttivo, già la filosofia in età moderna se ne era occupata da vicino e con grandissimo acume. Se ancora Kant le considerava un “cancro della ragione”, Descartes (soprattutto l’ultimo Descartes, quello de Le passioni dell’anima, 1649, l’anno precedente la sua morte) e Baruch Spinoza (per fare due nomi tra i più rilevanti) ne avevano però motivato ed apprezzato il ruolo. Spinoza rappresenta anzi il ponte tra le etiche tese all’autocontrollo e alla manipolazione politica delle passioni e quelle che lasciano il campo aperto all’incommensurabilità del desiderio. Se la complessità delle emozioni non viene più ricondotta all’espressione di un sistema non cognitivo e all’irrazionalità, allora diviene possibile individuare in esse, in un senso positivo, le radici ed i criteri di interi ambiti di esperienza e di condotta [2]: vedremo quanto ciò aiuti, per esempio, a comprendere la politica.
Le passioni sono peraltro da sempre coniugate al desiderio ed anche per questo motivo, fin dall’antichità classica, la loro dinamica è stata mortificata: la pleonexia,la brama di possesso, era il peccato mortale dell’etica classica. E non solo in Occidente: tre secoli prima della fondazione della Stoà, Lao-Tse aveva scritto nella Regola celeste: “Non c’è colpa maggiore, che indulgere alle voglie. Non c’è male maggiore che quello di non sapersi accontentare. Non c’è danno maggiore che nutrire bramosia d’acquisto”.
Oggi non è pensabile una geometria delle passioni costruita sulla specularità tra di esse e la ragione: “i due estremi (quello del dominio repressivo della ragione o della volontà sulle passioni e sui desideri e quello della loro ribellione e insubordinazione) rivelano una speculare connivenza sistemica e una sostanziale impraticabilità. Anche in questo primo senso, è caduta la ‘geometria delle passioni'”(Bodei).
Se per gli Antichi l’universo delle passioni è dunque, per sé preso, questionabile e in via generale condannabile, tra le passioni ve ne sono di migliori e di peggiori. Per quanto sia tra i sette vizi capitali, l’ira non è annoverata tra le peggiori, se Dante la rappresenta perfino in Paradiso, dove Pietro avvampa appunto d’ira e pronuncia parole di condanna nei confronti dei suoi successori alla guida della Chiesa, ricordandone i misfatti compiuti. Perfino in Paradiso, nel cosmo dantesco, hanno cittadinanza passioni accettabili, e tra queste appunto l’ira, in quanto volta al bene. Esiste infatti da millenni una distinzione tra un’ira che serviva – diciamo così – ed una invece che smuoveva le emozioni più basse dell’uomo, era condannabile ed anzi rientrava tra i peccati capitali, peraltro nei secoli diversi per numero e non canonizzati una volta per tutte.
[1] Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991, pag.11.
[2] Cfr. Tito Magri, Ridare cittadinanza alle emozioni, in Filosofia ed emozioni, a cura di Tito Magri, Feltrinelli, Milano 1999, pag. 10.