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Il caso ANS

12 dicembre 2008

ap101330310604084252_bigForse, adesso dovremmo essere in grado di capire qualcosa del senso mitico della vita e della morte di Anna Nicole Smith e di come mai ciò abbia a che fare con la politica.
Nel caso della Smith, si danno molte semplici narrazioni ed emozioni ready-made. Mettendo insieme il tutto, si ottengono delle montagne russe di emozioni complesse, ed un intreccio complesso.
La prima narrazione che la sua storia ripropone è quella del poveraccio-che-diventa-ricco. La narrazione stessa è un’icona americana, una versione dell’american dream: l’americano che parte povero e che arriva in alto. Che poi è una versione particolare della narrazione della reinvenzione del sé: in America, reinventarsi è premiante (vedi i casi di Richard Nixon e di Al Gore, recentemente). Anche Vickie Lynn Hogan, una ballerina di topless, si reinventò, dandosi un nuovo nome ed una nuova identità: appunto quella di Anna Nicole Smith.
ans_playboycoverLa catena dei primi fatti: una ragazza qualsiasi, certamente bella, come Anna Nicole viene scelta per apparire nuda su “Playboy”, diventa Playmate of the Year, le viene offerto un contratto miliardario dai jeans Guess? e sposa infine un miliardario vero, anche se vecchio, J. Howard Marshall. E’ più della narrazione del povero-che-diventa-ricco. E’ l’incarnazione dell’americano redento, dell’eroe prima a terra e che sembra un perdente e che poi si rialza e con le proprie forze (ehm…) si strappa dalla condizione subalterna di cameriera, poi di ragazza-madre senza una lira e infine di ballerina di topless. Diviene una celebrità in quanto celebrità, non perché sappia far qualcosa. Secondo tempo: Anna Nicole appare sempre più spesso in televisione, ha perfino un suo programma. Intanto ingrassa a dismisura e a dismisura dimagrisce, fa uso di droghe, ama e sbeffeggia contemporaneamente l’anzianissimo coniuge; perde il figlio adolescente avuto da adolescente per un overdose di metadone, ed infine muore anche lei, sembra per un cocktail di droghe.

Marilyn Monroe

Marilyn Monroe

Perfino la sua morte incarna quindi una delle principali narrazioni standard, simile a quella di Marilyn Monroe, di Jayne Mansfield, di Janis Joplin, per restare alle signore: vivi in fretta, muori giovane. Cosa rende allora ANS una figura tipica? Il fatto di incarnare contemporaneamente tutte queste narrazioni fatte da luoghi comuni ed una serie di contesti tipicamente americani. Quasi come un’icona pop o un personaggio dei fumetti. Come questi ultimi, ANS non aveva una propria realtà indipendente, ha vissuto solo nelle narrazioni e nei contesti nei quali ha trovato spazio.

Jane Mansfield

Jane Mansfield

Le donne dell’America profonda si sono riconosciute nella povera ragazza dal buon cuore e con poca educazione, disposta a giocare le uniche carte che aveva: il proprio corpo e la propria determinazione per diventare famosa e far fortuna.
Anche i suoi difetti rientrano perfettamente in altre narrazioni standard: il suo egoismo straripante, la sua avidità, il suo scarso talento, il suo arrivismo che la indusse a sposare e perfino a fare sesso con un novantenne, la fanno rientrare nella narrazione tipica della “donna avida d’oro”: senza cuore, manipolatrice, disposta a sposare un uomo più vecchio di lei di sessant’anni per denaro, divoratrice di carte di credito in gioielli e vestiti, lontana da lui al momento della sua morte, poi impegnata in un durissimo contenzioso legale col figlio di lui per l’eredità, fino alla Corte Suprema.

Anche la narrazione della “vita spericolata” le si addice. Diciannovenne con un figlio, viene piantata dal compagno e si ritrova a dover usare il proprio corpo per guadagnare, facendo la spogliarellista nei topless bar di Houston. Fa uso di droghe e beve. Viene arrestata per guida in stato di ubriachezza e per rapina. E’ bisessuale, viene anche denunciata da una donna per molestie sessuali.
anna_nicole10_300La sua storia rientra anche nella narrazione di “come sposo un milionario”. Come Marilyn Monroe e Julia Roberts nei loro ruoli famosi, ANS è una ragazza ingenua dal cuore d’oro che un miliardario capisce e rispetta, ed il suo rispetto gli fa vincere il suo cuore.
Insomma, una serie di storie le calzano a pennello. Tutte narrazioni e contesti nei quali gli americani non fanno alcuna fatica ad immedesimarsi.
Ma a proposito della narrazione del redento, ecco il ponte con la politica. Nell’agosto scorso, John McCain e Barack Obama, in quanto candidati alla Presidenza degli Stati Uniti, si sono offerti in pubblico ad una confessione delle proprie colpe passate. McCain ha confessato di sentirsi in colpa per il fallimento del suo primo matrimonio. In effetti, il Senatore repubblicano lasciò la prima moglie dopo che, a causa di un incidente, lei si era imbruttita. Il Senatore dell’Illinois ha confessato invece una colpa giovanile: essersi fatto delle canne da ragazzo.
Già in passato il rito espiatorio aveva visto protagonisti Bill Clinton, infine reo confesso di aver praticato sesso orale con altri dalla propria moglie – colpa lieve questa specialmente, divenuta però gravissima perché lo indusse a mentire di fronte al Congresso; George W. Bush, ha dichiarato i suoi trascorsi di ex alcolista anonimo per affezione al bourbon e di renitente alla leva. In ogni caso, confessare significa per gli Americani dimostrare che non si ha più paura di un passato imbarazzante. Smettere di bere significa allora, per esempio, accreditarsi agli occhi del pubblico come appunto un Redento, colui che non pecca più ma che è passato attraverso il peccato. Ed ogni insuccesso passato diviene testimonianza del suo contrario, della forza di carattere.

Amy Winehouse

Amy Winehouse

Il primo grande successo di Amy Winehouse, di suo piuttosto incline al bere ed alle droghe, si chiamava Rehab, che stava proprio per rehabilitation: anche nel mondo inglese si fa strada la narrazione del peccatore che si redime.
Ma il fatto che si faccia così tanto affidamento sulla capacità del pubblico di riconoscere istantaneamente questi contesti – in questo caso, autoassolutori – e queste narrazioni prova quanto essi siano fisicamente insediati nei nostri cervelli. Secondo Lakoff, non che ci sia nati, ma certo siamo cresciuti esposti a loro e li abbiamo acquisiti come strutture narrative profonde, al punto da conformare una serie di nostre sinapsi. Non riusciamo a capire gli altri se non ricorrendo a queste narrazioni culturali. Ma, il che è più rilevante, non possiamo neppure capire noi stessi, chi siamo, chi siamo stati e dove vogliamo arrivare, senza riconoscere e vedere come ci adattiamo a questi modelli narrativi culturali. Capiamo le figure pubbliche calandole in questi modelli narrativi complessi insediati nei circuiti neuronali del nostro cervello. Ma dobbiamo sapere che essi possono essere attivati e funzionare inconsciamente, automaticamente, in modo riflesso. E vediamo e consideriamo ANS o George W. Bush senza pensare al fatto che il modo in cui li consideriamo non dipende solo e tanto dalle nostre scelte consce, quanto dalle scelte narrative operate dal nostro cervello al di là della nostra consapevolezza conscia.
E allora? Cosa possiamo fare? Secondo Lakoff, dobbiamo sforzarci di rendere l’inconscio cognitivo il più possibile conscio, così da far diventare le decisioni da riflesse, riflettute. Pur sapendo che in un certo senso non possiamo sfuggire al dato; le narrazioni culturali sono nel nostro cervello e ci appartengono, ed è illusorio pensare di valutare qualcuno o qualcosa al di fuori di loro.
Nel che scorgo l’affacciarsi di una contraddizione: dopo aver criticato aspramente, e con ottime ragioni, la razionalità pura del modello di mente illuminista, Lakoff indulge in un tentativo anch’esso tipicamente “illuministico”, come quello di portare a consapevolezza quel che non lo è. Che è poi una critica ormai di scuola rivolta anche alla psicoanalisi: se l’inconscio è tale, come è possibile “dirlo” consciamente? O, più terra terra: se Freud non incorse in un lapsus paragonando l’inconscio allo Zuiderzee, il mare interno degli olandesi da bonificare, possibile che il compito delle forze che si pongono dalla parte della ragione sia sempre quello di dover sottrarre spazio e campo alle emozioni ed alle passioni? D’altra parte, ed in un luogo ben più rilevante della sua opera, Freud ha spiegato di concepire l’inconscio come la parte emersa dell’immenso iceberg costituito dall’inconscio. Immagine che vale assai più della precedente e più in sintonia con questo nostro corso, che intende spinozianamente non creare discontinuità tra ragioni e passioni.

Il fatto è che la politica, ed il campo conservatore soprattutto, ha capito benissimo il ruolo ed il peso dei contesti narrativi: Anna Nicole Smith ne è la prova. Ha capito perfettamente quanto pesante sia il ruolo delle narrazioni e quanto alcune funzionino meglio di altre.

Breve storia dell’ira, 1

3 novembre 2008
Breve storia dell’ira

 

Riprendiamo con una breve storia dell’ira. O meglio: con una breve storia della proscrizione dell’ira, del suo sparire dalle virtù e del suo entrare nel novero dei difetti e dei peccati. Della sua domesticazione, come la definisce Sloterdijk.
Innanzitutto, prima di considerarla una merce, l’ira è una passione e come tale soggiace alla condanna generale che la cultura in occidente come in oriente ha inflitto per millenni alle passioni, in quanto fattori di turbamento o di perdita temporanea o definitiva della ragione. Condanna caduta in prescrizione nel Novecento grazie a Freud, se proprio si deve fare un nome. Come capì Thomas Mann, dobbiamo infatti allo scopritore dell’analisi del profondo, prosecutore ideale dell’opera di Nietzsche, la possibilità di poterci occupare delle passioni senza passare per dei romantici o per cultori reazionari del mito. Dopo Freud, è pienamente legittimo inserire in uno stesso orizzonte di senso passioni e ragioni, non più divise su fronti opposti in un’arena che solo ammetta lo scontro tra le prime in quanto disordine, ombra e assenza di logica e le seconde, anzi: la seconda, la Ragione al singolare, in quanto logica, ordine, luce. Come dice Remo Bodei – che a questo tema da lunghi anni dedica importanti considerazioni -, “si potrebbe interpretare questo rapporto, semmai, quale conflittualità tra due logiche complementari, che operano secondo lo schema del ‘né con te, né senza di te” [1].
Non dobbiamo però certamente solo a Freud la considerazione moderna per le passioni e la loro riabilitazione. Si è già nominato Nietzsche, e se la sfera delle passioni è stata sdoganata appunto dal padre della psicoanalisi su di un piano, diciamo così, produttivo, già la filosofia in età moderna se ne era occupata da vicino e con grandissimo acume. Se ancora Kant le considerava un “cancro della ragione”, Descartes (soprattutto l’ultimo Descartes, quello de Le passioni dell’anima, 1649, l’anno precedente la sua morte) e Baruch Spinoza (per fare due nomi tra i più rilevanti) ne avevano però motivato ed apprezzato il ruolo. Spinoza rappresenta anzi il ponte tra le etiche tese all’autocontrollo e alla manipolazione politica delle passioni e quelle che lasciano il campo aperto all’incommensurabilità del desiderio. Se la complessità delle emozioni non viene più ricondotta all’espressione di un sistema non cognitivo e all’irrazionalità, allora diviene possibile individuare in esse, in un senso positivo, le radici ed i criteri di interi ambiti di esperienza e di condotta [2]: vedremo quanto ciò aiuti, per esempio, a comprendere la politica.
Le passioni sono peraltro da sempre coniugate al desiderio ed anche per questo motivo, fin dall’antichità classica, la loro dinamica è stata mortificata: la pleonexia,la brama di possesso, era il peccato mortale dell’etica classica. E non solo in Occidente: tre secoli prima della fondazione della Stoà, Lao-Tse aveva scritto nella Regola celeste: “Non c’è colpa maggiore, che indulgere alle voglie. Non c’è male maggiore che quello di non sapersi accontentare. Non c’è danno maggiore che nutrire bramosia d’acquisto”.
Oggi non è pensabile una geometria delle passioni costruita sulla specularità tra di esse e la ragione: “i due estremi (quello del dominio repressivo della ragione o della volontà sulle passioni e sui desideri e quello della loro ribellione e insubordinazione) rivelano una speculare connivenza sistemica e una sostanziale impraticabilità. Anche in questo primo senso, è caduta la ‘geometria delle passioni'”(Bodei).
Se per gli Antichi l’universo delle passioni è dunque, per sé preso, questionabile e in via generale condannabile, tra le passioni ve ne sono di migliori e di peggiori. Per quanto sia tra i sette vizi capitali, l’ira non è annoverata tra le peggiori, se Dante la rappresenta perfino in Paradiso, dove Pietro avvampa appunto d’ira e pronuncia parole di condanna nei confronti dei suoi successori alla guida della Chiesa, ricordandone i misfatti compiuti. Perfino in Paradiso, nel cosmo dantesco, hanno cittadinanza passioni accettabili, e tra queste appunto l’ira, in quanto volta al bene. Esiste infatti da millenni una distinzione tra un’ira che serviva – diciamo così – ed una invece che smuoveva le emozioni più basse dell’uomo, era condannabile ed anzi rientrava tra i peccati capitali, peraltro nei secoli diversi per numero e non canonizzati una volta per tutte.
[1] Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991, pag.11.
[2] Cfr. Tito Magri, Ridare cittadinanza alle emozioni, in Filosofia ed emozioni, a cura di Tito Magri, Feltrinelli, Milano 1999, pag. 10.