“All’inizio della prima frase della tradizione europea, nel verso di apertura dell’Iliade, emerge, fatale e solenne come un appello che non tollera obiezioni, la parola ‘ira’. Il nome è in accusativo come si conviene all’oggetto ben definito di una frase. ‘L’ira celebro, o Dea, di Achille, del Pelide (…)’”. Ecco, quindi: nell’Occidente antico ogni cosa iniziò con lei, l’ira.
Il che è naturale, secondo Sloterdijk, essendo l’ira «la forza fondamentale nell’ecosistema degli affetti» che anima i corpi e le menti degli europei sino, appunto, dall’Iliade. Nel corso della modernità, prima il cristianesimo, poi il comunismo, sarebbero riusciti a canalizzarla, trasformandola in energia spirituale e politica. Cristianesimo e comunismo avrebbero così aperto una serie di banche in grado di raccogliere l’ira coltivata dagli scontenti, assegnandole un valore di redenzione politica capace di rompere il cerchio dell’oppressione e di garantire una salvezza in questo o nell’altro mondo.
Peraltro, il filosofo tedesco non è stato il primo a rimarcare questo esordio timotico della cultura europea: già Watkins (1987) ed altri lo avevano sottolineato, segnalava Remo Bodei già diversi anni fa[1].
Torniamo a quell’inizio nella piana di Troia, narrato dal poeta. Per quei casi in cui oggi si fa appello ai terapeuti o si cerca il numero della polizia, gli iniziati di allora si rivolgevano al mondo ultraterreno (vai a vedere se con minore fortuna…). Omero chiede alla divinità di legittimare il suo ricordo del sentimento che s’impadronì dell’eroe degli Achei ad un certo punto della guerra di Troia. Il poema, nella versione più antica nota ad Aristosseno, iniziava sì con l’ira, ma di Apollo, non di Achille. L’ira di Apollo fungeva da ponte tra l’ira di Zeus ricorrente nel mondo esiodeo e l’ira di Achille, pienamente omerica[2]. L’ira di Achille è, in effetti, l’ira di un uomo. La parola per dire quel sentimento è mēnis, in questo contesto traducibile con ira:
Quale ira? Mēnis è qui l’ira figlia dell’indignazione. Come vedremo, Omero spiega che, allorquando Achille rifiuterà i doni che Agamennone gli invia in riparazione, la sua legittima mēnis diventerà infatti qualcos’altro, cholos – cioè bile, umano rancore che avvelena l’animo. L’ira di cui qui si parla non è semplice collera: ha valore sacrale, numinoso. Secondo alcuni interpreti, non esprime l’irruzione dell’irrazionalità, quanto “il dilagare di una potenza generativa. Essa ha carattere essenzialmente morfogenetico. Produce, genera, conferisce forma”[3].
Agli esordi della tradizione culturale occidentale, viene dunque evocata una passione timotica, una passione-contro, l’ira. Che fa parte quindi di una costellazione di sentimenti distinta e diversa da quella dei sentimenti erotici, delle passioni-per. L’ira fa piuttosto parte della famiglia cui appartengono odio, melanconia, rabbia, rancore, risentimento, ma anche orgoglio, gloria, indignazione, autostima, amour propre, desiderio di riconoscimento – comunque atteggiamenti, disposizioni d’animo e comportamenti associabili appunto al thymós, termine molto complesso che indica il cuore (non l’organo, cardie, ma la sede delle passioni appunto), il principio della vitalità, e per estensione, la disposizione dell’anima a reagire energicamente, ad accendersi e quindi, in senso lato, l’ira[4].
Sentimenti forti e rilevanti, ai quali però – nell’ambito delle descrizioni psicologiche novecentesche che definiscono la natura dell’uomo – sarebbe stato riservato uno spazio relativo, poiché l’attenzione – almeno a partire dall’opera di Sigmund Freud – si sarebbe concentrata di più sulla disposizione erotica dell’individuo, nei suoi rapporti con gli altri e con il mondo.
Ira e tempo di Sloterdijk parte proprio da qui, da un presunto misconoscimento; ricostruendo l’evoluzione nella storia dell’Occidente di questa particolare passione, che per venire correttamente intesa deve essere osservata però nella relazione che intrattiene con il tempo. Nonostante sembri infatti una passione declinata al presente, all’esplosività e alla dispersione subitanea di energia, l’ira svela in realtà la sua natura e il suo ruolo politico solo se la si osserva proiettata all’indietro o in avanti nella dimensione temporale. In altri termini, è possibile cogliere la sua rilevanza sociale solo se la si osserva in rapporto con il passato e, soprattutto, con il futuro. Da subito, l’ira ha a che fare con l’intersoggettività, e già nell’Iliade si apprezza il suo rapporto stretto con il mondo delle regole sociali, particolarmente con le regole dello scambio interpersonale[5].
[1] Remo Bodei. Geometria delle passioni, cit., pag. 189 e segg.
[2] Omerica certo, ma quasi confinata nell’Iliade, poiché dell’ira – in questi termini – nell’Odissea quasi non vi è traccia. Su questo aspetto insiste molto Leonard Charles Muellner nel suo The Anger of Achilles: Menis in Greek Epic, Cornell University Press, 2005, in particolare vedi pag. 96 e segg.
[3] Cfr. Umberto Curi, Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Edizioni Dedalo, 1999, pag. 13.
[4] Nelle Rime, parte seconda, XXV, Dante canta: “Un dì si venne a me Malinconia e disse: «Io voglio un poco stare teco»; e parve a me ch’ella menasse seco Dolore e Ira per sua compagnia”.
[5] Anche su questo aspetto insiste molto Muellner, op. cit.