Archive for the ‘filosofia greca’ Category

mè mnesikakein

18 novembre 2008

Le vicende successive alla vicenda dei 30 Tiranni, nell’Atene del 403 avanti Cristo segnano un discrimine ed un precedente nel rapporto tra democrazia e giustizia. Abbattuta la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a “deporre il risentimento” (mè mnesikakein, letteralmente “non ricordare i mali”) nei confronti dei suoi avversari sconfitti. I democratici riconoscevano che vi era stata una stasis, una guerra civile e che s’imponeva adesso un momento di non-memoria, e di conseguente amnistia per riconciliare la città. Malgrado l’opposizione dell’ala democratica radicale che, come Lisia, esigeva la punizione dei Trenta, il giuramento passò. Gli Ateniesi quindi sospesero i loro “cattivi ricordi”, senza con ciò dimenticare l’accaduto, ma lasciando cadere il risentimento. L’amnistia sanciva la necessità, per i cittadini democratici duramente provati dalla tirannide dei Trenta, di non vendicarsi del male subito e, di conseguenza, di perdonare ai nemici le colpe commesse, in nome di un superiore ideale di concordia civica, ritenuto di primario interesse per la città: all’opposto, si riteneva che dare corso alla vendetta avrebbe scatenato una spirale di violenze e di contese giudiziarie difficilmente arginabile.

Atene, Teseion

Atene, Teseion

Studi recenti su Trasibulo – l’artefice della liberazione democratica di Atene dalla tirannide dei Trenta – e sull’ispirazione della sua prassi politica, hanno messo in luce caratteri originali ed innovativi del suo agire politico. L’accento cade in particolare sulla sua valorizzazione del perdono reciproco come strumento di ricomposizione sociale e politica della comunità civica, dopo le gravi fratture determinate dalla crisi costituzionale e dalla guerra civile. Questa prassi supera la tradizionale etica della vendetta a vantaggio di un approccio nuovo al problema della ricomposizione dei contrasti politici più gravi, sostanziandosi di ideali non solo politici, ma anche religiosi.
Sostanzialmente, l’amnistia fu osservata, ma vi furono diversi tentativi di violazione e di aggiramento (come ci testimoniano Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi 40, 2 ed Isocrate XVIII, 2). Particolarmente duro e contrario a possibili “colpi di spugna” fu l’atteggiamento di Lisia nei confronti dell’applicazione indiscriminata dell’amnistia del 403, criticando le modalità di applicazione delle convenzioni e le clausole che regolavano il diritto di godere della protezione amnistiale. Pur convinto del valore dell’amnistia, Lisia oppone al tema dell’oblio dei mali subiti la convinzione che serva conservare invece la memoria, e che questa imponga non tanto la vendetta, quanto la giustizia. Lisia valuta appieno i rischi connessi con un’applicazione troppo generosa dell’amnistia, non proponendo mai tuttavia una contestazione di principio dell’amnistia stessa, difesa in quanto strumento di recupero della convivenza democratica. Secondo Lisia, compito dei democratici era applicare le convenzioni d’amnistia, con la massima sensibilità, ai singoli casi, assicurando il perdono solo a chi ne avesse davvero diritto, vale a dire a quanti non si erano piegati a collaborare fattivamente con il regime dei Trenta. Lisia, diremmo oggi, voleva evitare generalizzazioni “garantiste” che si risolvessero in una eccessiva generosità verso chi aveva condiviso responsabilità di governo e si era reso complice di reati contro i concittadini.

In sostanza, “l’atteggiamento del mondo politico ateniese di fronte all’amnistia appare dunque tutt’altro che unanime. Alla rivendicazione della necessità dell’oblio per poter procedere, attraverso il perdono, alla riconciliazione nazionale, si contrappone quella della necessità della memoria, presupposto della vendetta (se pure per via rigorosamente giudiziaria) e della riaffermazione della giustizia, senza la quale non appare possibile una vera ricomposizione delle fratture civiche. Entrambe queste prospettive, di carattere politico, non possono essere scisse da questioni religiose. L’oblio voluto da Trasibulo sembra trovare il suo fondamento etico nelle suggestioni religiose promananti dalla pietà eleusina; la memoria richiesta insistentemente da Lisia rimanda invece all’etica tradizionale legata alla religione olimpica”[1].

Nelson Mandela

Nelson Mandela

La formula greca di riconciliazione del mè mnesikakein, nata nella democrazia ateniese di fine V secolo, è stata richiamata periodicamente dagli eventi più drammatici del Novecento: per esempio, dalla memoria dell’Olocausto; dall’amnistia promossa da Togliatti per i fascisti nell’Italia repubblicana del dopo-guerra e dall’attività della Truth and Reconciliation Commission (TRC) nel Sud Africa del presidente Mandela. In forme diverse tra loro, si è ripresentata la stessa domanda della vicenda ateniese sulla validità delle soluzioni proposte, riproponendo in tutta la sua complessità la dialettica fra memoria, perdono ed oblio. 

La questione si fa ancor più tesa e ardente se rapportata alla realtà italiana e all’oggi.  Giorgio Agamben è tra chi ha propugnato una posizione “alla Trasibulo” nei confronti dei protagonisti degli “anni di piombo”.

via Fani

via Fani

Undici anni fa Agamben scriveva su “il manifesto”: “Non sorprende, allora, che la nostra classe politica non possa pensare l’amnistia, non possa deporre i propri “cattivi ricordi”. Essa è condannata al risentimento, perché in Italia l’eccezione è veramente divenuta la regola e paese “normale” e paese eccezionale, storia passata e realtà presente sono diventati indiscernibili. Di conseguenza, ciò che dovrebbe essere oggetto di memoria e di indagine storica, viene trattato come un problema politico presente (autorizzando il mantenimento delle leggi speciali e della cultura dell’emergenza) e ciò che dovrebbe essere oggetto di una decisione politica (l’amnistia) viene invece trattato come un problema di memoria storica. L’incapacità di pensare che sembra oggi affliggere la classe politica italiana e, con essa, l’intero paese, dipende anche da questa maligna congiunzione di una cattiva dimenticanza e di una cattiva memoria, per cui si cerca di dimenticare quando si dovrebbe ricordare e si è costretti a ricordare quando si dovrebbe saper dimenticare. In ogni caso, amnistia e abrogazione delle leggi speciali sono le due facce di un’unica realtà e non potranno essere pensate se non insieme. Ma per questo sarà necessario che gli italiani riapprendano il buon uso della memoria e dell’oblio”.
Personalmente, ritengo che l’Italia viva sì uno stato di eccezione, ma non a causa delle leggi speciali promulgate negli anni del terrorismo. Non credo opportuno tuttavia invocarlo per amnistiare i protagonisti delle azioni dei gruppi di fuoco che negli anni Settanta e Ottanta del Novecento hanno contribuito come prima causa all’arretramento della nostra democrazia. Evidentemente, si tratta di un punto delicato e controverso, sul quale ogni coscienza civile è chiamata a farsi un’opinione ed a confrontarsi con quella degli altri. La dialettica tra memoria, risentimento ed oblio è ancora una pietra di scandalo.


[1] Cinzia Bearzot, Memoria e oblio, vendetta e perdono nell’Atene del 403 a.C. http://rivista.ssef.it/site.php?page=20060421101704843&edition=2006-04-01

Riconoscimento e desiderio

11 novembre 2008

Ira e tempo rende ad Hegel ciò che è di Hegel: perché si deve all’autore della Fenomenologia dello spirito la scoperta della decisività di questa riflessione morale dell’uno nell’altro, richiamando con perspicacia unica l’attenzione su una potentissima fonte di soddisfazione, o di fantasie di soddisfazione: “sul campo della lotta per il riconoscimento, l’uomo diventa quell’animale surreale che rischia la sua vita per dei brandelli colorati, per una bandiera, per una coppa”[1]. La lotta a morte per il puro prestigio, come Hegel definisce il primo gradino dell’autocoscienza, la sfida tra pari, è un tassello importante nel processo d’identificazione personale. Il servo, colui che ha paura della morte, l’apprende vivendo a contatto col signore, con colui che non ha paura. Anche in questo caso, la movenza dialettica tipica del pensare hegeliano ci soccorre, mostrando come la coscienza servile non riesca ad emanciparsi senza assumersi parte della tracotanza signorile. Se ne assume la sostanza, cioè l’habitus per cui il desiderio di riscatto è più forte della paura e strappa quindi il servo all’humilitas della quale pure è impastato. Ma il servo, quando sfamerà il signore e lo saprà, cioè diverrà consapevole della decisività del proprio operare finito per la propria e altrui sopravvivenza, manterrà beninteso quel legame profondo e basso con la naturalità, con la paura e con la morte, superando così la fase narcisistica del signore. In ultimo, il momento signorile della lotta per il puro prestigio resterà nella memoria di carne del servo-padrone. Giacché – come sostengo da  tempo – servo e signore non sono due figure separate, due coscienze opposte, ma due funzioni ancipiti della stessa coscienza umana, ora serva ora signorile.
Sarebbe meglio dunque, aggiunge Sloterdijk, occuparsi del riconoscimento come sentimento essenziale per le relazioni intertimotiche. La stessa intersoggettività (a cui questo stesso insegnamento è dedicato) dovrebbe ripensarsi, considerando i rapporti umani non soltanto in una chiave psicoanalitica (cioè erotico-dinamica, per dirla con Sloterdijk), ma anche alla luce del peso che nelle relazioni hanno le ambizioni. Come aveva già capito Platone, da leggersi sempre di nuovo non solo come erotologo e autore del Simposio, ma anche come psicologo dell’autostima. E qui Sloterdijk elogia Francis Fukuyama in quanto autore di uno “dei più migliori riassunti dei discorsi antichi e nuovi sul thymos, nelle sezioni più ricche di idee di quel bestseller non letto che è La fine della storia”[2]. E’ il Platone del IV libro della Repubblica ad essere valorizzato, per la sua considerazione del thymos come della capacità di mettere la persona contro se stessa; la capacità, o meglio la virtualità, la potenzialità di ciascuno a soddisfare le proprie pretese: la scoperta di Platone consisterebbe “nel richiamare il significato morale dell’autoriprovazione violenta”: solo chi riesce a biasimare se stesso è sulla strada dell’autonomia e potrà autoguidarsi. Certo, in questo modo Platone mette una pietra miliare sulla strada della domesticazione morale dell’ira: i moti dell’animo ottengono cittadinanza nella città dei filosofi.


[1] Peter Sloterdijk, Ira e tempo, cit., pag. 31.

[2] Ivi, pag. 32.

Ira e thymos

3 novembre 2008

La questione del tyhmos trova la sua prima sistematizzazione nella dottrina platonica. Al mito narrato nel Fedro della biga alata e dell’auriga [1] è rimessa la prima significativa rappresentazione della natura umana, nella quale sia possibile individuare la funzione dell’aggressività e dell’ira nell’economia del comportamento umano. Il logos è l’auriga, il conduttore della biga, in grado di condurre verso l’alto l’elemento animale rappresentato dall’anima irascibile, simboleggiata dal cavallo bianco, mentre l’anima concupiscibile, simboleggiata dal cavallo nero, rende difficile e faticosa la guida del carro. Il cavallo nero, l’epithymetikon, tira insomma verso il basso, verso i desideri ribelli, ed a stento l’auriga riesce ad imporre la sua logokratia.
L’anima irascibile (il cavallo bianco) è come “neutrale” tra la parte razionale e quella concupiscibile e può allearsi con l’una e con l’altra parte. In altri termini, nel Fedro l’aggressività (della quale l’ira ancipite, dai due volti, costituisce il motore) non è giudicata negativamente tout court come la concupiscenza, perché se guidata dalla ragione può cooperare con essa al raggiungimento di fini positivi per la natura umana.
Questo aspetto è sviluppato nel libro IX della Repubblica, dove la parte irascibile dell’anima è definita come quella “che aspira tutta e sempre a dominare e vincere e ottenere buona fama”. La strategia di Platone intende quindi valorizzare la parte irascibile dell’anima, intesa come disposizione permanente dell’uomo ad agire volitivamente e risolutamente: ad essa viene attribuito il ruolo di radice ultima del coraggio, che nella scala di valori platonica, rappresenta, dopo le virtù intellettuali, la massima tra le virtù pratiche, quelle virtù che Aristotele definisce virtù etiche. Proprio il coraggio diverso rendeva già in Platone l’ilota migliore del “fante di marina”, perché l’ilota non ha altro che il proprio coraggio da gettare nella lotta, mentre il marinaio può farsi aiutare dalla tecnica, dal saper manovrare la barca.
 L’elemento della “buona fama” entra quindi come correlato dell’ira fin da Platone. È la prima traccia di quel desiderio di riconoscimento che Hegel piazzerà al centro della sua antropologia filosofica. L’aspirazione a godere di buona stampa, insomma: a valere in quanto individuo riconoscibile, ha a che fare quindi con l’ordine timotico delle passioni già in Platone.

Veniamo rapidamente ad Aristotele. Che scrive nell’Etica nicomachea (5. Le virtù sono disposizioni dell’anima):

«Dopo di ciò bisogna esaminare che cos’è la virtù. Poiché, dunque, gli atteggiamenti interni all’anima sono tre, passioni capacità disposizioni, la virtù deve essere uno di questi. Chiamo passioni il desiderio, l’ira, la paura, la temerarietà, l’invidia, la gioia, l’amicizia, l’odio, la brama, la gelosia, la pietà, e in generale tutto ciò cui segue piacere o dolore. Chiamo, invece, capacità ciò per cui si dice che noi possiamo provare delle passioni, per esempio, ciò per cui abbiamo la possibilità di adirarci o di addolorarci o di sentir pietà. Disposizioni, infine, quelle per cui ci comportiamo bene o male in rapporto alle passioni: per esempio, in rapporto all’ira, se ci adiriamo violentemente o debolmente ci comportiamo male, se invece teniamo una via di mezzo ci comportiamo bene. E similmente anche in rapporto alle altre passioni. Passioni, dunque, non sono né le virtù né i vizi, perché non è per le passioni che siamo chiamati uomini di valore o miserabili, bensì per le virtù ed i vizi, e perché non è per le passioni che siamo lodati e biasimati (infatti non si loda né chi prova paura né chi si adira, né si biasima chi semplicemente si adira, ma chi si adira in un certo modo), mentre siamo lodati o biasimati per le virtù ed i vizi. Inoltre, ci adiriamo o proviamo paura senza una scelta, mentre le virtù sono un certo tipo di scelta o non sono senza una scelta. Oltre a questo si dice che siamo mossi secondo le passioni, ma che secondo le virtù ed i vizi non siamo mossi, ma posti in una certa disposizione. Perciò essi non sono neppure delle capacità. Infatti non siamo chiamati buoni o cattivi, né siamo lodati o biasimati per il semplice fatto di poter provare delle passioni; inoltre, abbiamo per natura la capacità di esserlo, ma non diventiamo buoni o cattivi per natura: abbiamo parlato di questo prima. Se dunque le virtù non sono né passionicapacità, rimane che siano delle disposizioni. Ciò che è la virtù dal punto di vista del genere, è stato detto».

Per lo Stagirita, l’ira dunque è senz’altro una passione. Ma, per sé presa, non è buona né cattiva. Lo diviene, se la pieghiamo a strumento della nostra virtù o del nostro vizio: dipende dalla nostra disposizione, e riguardo all’ira in particolare – dice Aristotele – conviene che la nostra disposizione ci tenga lontani dagli estremi, dall’adirarsi violentemente o debolmente.
L’importante, comunque, è non farsene guidare: “L’ira è necessaria, né si può fare nessuna conquista senza di lei, senza che essa empia l’animo e accenda gli spiriti: ma bisogna adoprarla non come condottiero, ma come soldato”. Se diviene una pedina, se riusciamo a volgerne la forza a nostro vantaggio, l’ira si svela un’alleata preziosa.

Occorre inoltre tener conto di una distinzione. La menis greca comprende sia l’ira propriamente detta, sia il furore. Quest’ultima passione ne è la versione più universale, più neutrale – in senso platonico, e ne costituisce anche l’innesco. È quel fervore, il furor latino, quella spinta che muove Dio ed il mondo, spinta che può imbronciarsi ed assumere connotati negativi e neganti. Siamo sempre nell’universo timotico, ma il furore di Dio (il Gotteseifer del recente volume di Sloterdijk, pubblicato in questi giorni dalla Raffaello Cortina Editore) va ben distinto da quel Zorn Gottes, da quell’ira divina che precipita il diluvio sulla terra e sulle sue creature.

[1] Platone, Fedro, 246 a – 249 b.