De-drammatizzazione post-storica

Perché la nuova Presidenza americana, movimenti di contestazione e di rivolta, il desiderio di cambiamento non possono essere interpretati come una nuova fase della Storia? Secondo Sloterdijk, “l’emergere simultaneo del terrorismo, nel rapporto con l’esterno della civilizzazione occidentale, e di una nuova questione sociale, nelle questioni interne” non può essere “assolutamente compreso come indizio di un ‘ritorno’ della storia. Nei suoi punti fondamentali, il modus vivendi dell’Occidente e delle sue culture affiliate, è, in senso tecnico, davvero post-storico (cioè formalmente non più orientabile all’epos e alla tragedia; e pragmaticamente non più costruibile sulla base dei successi di azioni dallo stile unilaterale) e, allo stato attuale delle cose, non si può riconoscere da nessuna parte un’alternativa che potrebbe rilanciare il ritorno nel copione della storia”[1].
Siamo tecnicamente nella post-storia. Tecnicamente e pragmaticamente. In senso tecnico, perché l’epos e la tragedia della Storia erano frutto del teleologismo, delle vicende di uno spirito inteso come forme assunte dall’incedere della libertà; libertà della soggettività occidentale, faustianamente orientata, hegelo-marxiana, otto-novecentesca per dir così. Pragmaticamente, perché non hanno più Senso le azioni che si pretendono unilaterali, ma che non possono esserlo mai, dal momento che viviamo in un mondo post-globalizzato, in cui ogni azione entra in risonanza con quelle di tutti: viviamo in tempi di cronocomunismo e di spazio comunismo, non importa quale teorema della fine della storia si adotti. Se ne danno, secondo Sloterdijk, almeno quattro versioni: Kojève 1, fine della storia nello stalinismo, 2. Kojève 2 (fine della storia nell’american way of life e nello snobismo giapponese), 3. Dostoevskij (fine della storia nel “palazzo di cristallo”) e Heidegger (fine della storia nella noia).islamisti
Secondo Sloterdijk la civilizzazione è attesa da un necessario periodo di apprendimento, possibile solo grazie all’impegno di una politica della de-drammatizzazione post-storica, periodo nel corso del quale un capitalismo riformato dovrà occuparsi anche di neutralizzare il potenziale genocida di quei giovani uomini adirati che ancora s’illudono di indirizzare la Storia con i loro dissennati atti unilaterali. Se per costoro la storia significa l’oscillazione di colpo e contraccolpo, la saggezza consiste allora nel fermare il pendolo. E possono tornar buoni anche gli insegnamenti che diverse scuole di pensiero – occidentali e orientali – ci hanno lasciato, come stoicismo, buddhismo, e lo stesso cristianesimo. Per una domesticazione post-storica dei potenziali d’ira degli esclusi.


[1] PS, IeT, pag. 54.

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2 Risposte to “De-drammatizzazione post-storica”

  1. Roberto Punzo Says:

    In ragione della tesaurizzazione dell’ira nel tempo, mappe del tempo fungerebbero da preziose mappe del tesoro. Può essere interessante notare come una ‘topografia sociomentale del tempo passato’ (i) sia stata proposta per descrivere la costruzione sociale del passato e gettare luce sulle battaglie mnemoniche, come quella sul Kosovo. Per una politica della de-drammatizzazione post-storica, al di fuori quindi di teleologismo e di unilateralismo, occorre forse una certa disponibilità a considerare narrazioni storiche molteplici, poiché la selettività mnemonica motivata socialmente o politicamente porta al mancato riconoscimento di una narrazione storica diversa dalla propria. Non è questione di falsificazione, distorsione od omissione di fatti reali. Le pretese storiche dei serbi sul Kosovo possono essere relative all’occupazione della Serbia nel 1912, ma la narrazione albanese ricorda la ‘grande migrazione’ dei serbi nel 1690, che rese la comunità etnica degli albanesi quella principale in Kosovo; i serbi tuttavia ricordano che prima dell’albanizzazione indotta dagli ottomani, gli slavi avevano invaso la regione nel 547; la narrazione albanese ricorda allora che il Kosovo è abitato da tribù illiriche ‘indigene’ (ii). D’altra parte, per filogenesi e cuginanza, il nostro senso di parentela non andrebbe limitato agli ominidi: solo una qualche miopia genealogica ci impedisce di risalire nel tempo, al punto in cui le relative linee di discendenza divergono, per dichiararci finalmente lontani cugini dell’uva (iii). Nelle comunità mnemoniche, ovvero comunità di individui dal passato comune che tutti gli individui sembrano ricordare, tale costruzione si realizza attraverso la strutturazione in narrazioni storiche coerenti di stringhe di eventi fondamentalmente non strutturate (iv). La punteggiatura sociale del passato è tale per cui la discontinuità temporale sarebbe una forma di discontinuità mentale ed eventi come il polverizzarsi del World Trade Center sarebbero assunti come punti di partenza storici, secondo una pratica sociomnemonica del resettare a zero il cronometro storico di una comunità menmonica, come se fosse da non ricordare quanto di ‘irrilevante’ avvenuto prima: apparentemente innocua ma certo brutale ‘decapitazione mnemonica’. Così, nel 2001, gli USA ‘retaliate’ (v), si vendicano, vendetta originariamente denominata ‘Operation Infinite Justice’ (vi). Per la tesaurizzazione del sentimento del torto subito è utile mantenere ‘aggiornato’ il proprio passato per renderlo congruente con la propria immagine attuale, ad esempio sincronizzare tempo storico e calendario, per una timotologia ritualizzata. In Francia, alla luce di un rapporto del Parlamento, qualcuno pensa che non sia sano il moltiplicarsi delle giornate di pentimento per soddisfare un gruppo di vittime, perché ciò significherebbe indebolire la coscienza nazionale (vii).

    (i) In ‘Mappe del tempo’ di E. Zerubavel, il Mulino, Bologna, 2005
    (ii) Ibidem, pag. 186
    (iii) Ibidem, pag. 128
    (iv) Ibidem, pag. 29
    (v) http://www.september11news.com/October.htm
    (vi) http://www.globalsecurity.org/military/ops/infinite-justice.htm
    (vii) ‘Così la Francia riscrive il suo calendario’, articolo nel quotidiano la Repubblica del 11/11/08, pag. 34

  2. Roberto Punzo Says:

    Grazie, Adrian, per il riferimento a Galtung.
    Risulta interessante anche per me, sia in merito alla violenza perpetrata ai danni del ‘desiderio di riconoscimento’ che in merito al ‘tempo’. Nella sua introduzione agli studi sulla pace, scritta nel 1996 (1), Galtung propone di affrontare i conflitti in modo non violento e creativo, sulla base della conoscenza relativa ai conflitti. Esempi di formazioni conflittuali elementari sono la disputa tra due persone, che perseguono lo stesso scopo scarsamente disponibile, ed il dilemma, per cui una persona persegue due scopi incompatibili. Sono conflitti che generano energia:
    “Il problema è come incanalare quell’energia costruttivamente.” (2)
    I conflitti, che sono evidentemente anche espressione di passioni timotiche, non possono né devono essere evitati, scongiurati, dissolti: essi sono pericolose occasioni, da cogliere, nelle quali la rinuncia, apaticamente, od il compromesso, con moderazione, non sono esiti necessari in alternativa alla risoluzione della questione con la forza e la violenza. I conflitti si possono anche trasformare creativamente (3), ma non in senso risolutivo, finale, una volta per tutte. Galtung propone una tipologia della violenza che si articolerebbe, secondo mia lettura, in ragione del ‘desiderio di riconoscimento’(4), potendosi distinguere tra violenza diretta e violenza strutturale. La prima assumerebbe le forme di desocializzazione e/o risocializzazione (ad esempio, proibizione e/o imposizione delle lingue), cittadinanza di seconda classe (l’essere costretti ad esprimere la cultura dominante e non la propria, almeno non negli spazi pubblici), repressione, detenzione, espulsione; la seconda assumerebbe le forme di penetrazione (“impiantare, per così dire, la mente di chi sta in alto dentro quella di chi sta in basso”), segmentazione (“dare a chi sta in basso una visione molto parziale di quel che succede”), marginalizzazione, frammentazione (“mantenere coloro che stanno in basso separati gli uni dagli altri”). I tipi di violenza strutturale, perpetrata ai danni del ‘desiderio di riconoscimento’, impedirebbero la formazione della consapevolezza e della mobilità, due condizioni per la lotta efficace contro lo sfruttamento.(5)
    Ma interessante è anche quanto Galtung scrive a proposito del tempo, nell’ottica della de-drammatizzazione post-storica che osserviamo: il tempo, nella cosmologia occidentale, sarebbe “iperdrammatico”. C’è il khronos, flusso del tempo fisico, oggettivamente, dalla Genesi all’Apocalisse, ovvero limitato. Ma ci sono anche le “bolle (!, esclamativo mio) temporali del kairos” (6), il tempo organico, soggettivo. Successi e fallimenti, salvezze e dannazioni, secondo incertezza, saranno seguiti certamente, senza fine, eternamente, da beatitudine o sofferenza. “E tutto ciò nel breve intervallo tra nascita e morte della biografia … di una persona, della storia di una società … o dell’intero mondo, dalla Genesi all’Apocalisse. Cosa potrebbe esserci di più drammatico”? (7) In altre cosmologie, come quelle indica, nipponica, sinica, il tempo sarebbe illimitato.

    (1) “Pace con mezzi pacifici” di J. Galtung, esperia edizioni, Milano, 2000.
    (2) Ibidem, pag. 132-132.
    (3) Ibidem, 178.
    (4) Galtung scrive “bisogni di identità” e “bisogni di libertà”, ibidem, pag. 359.
    (5) Ibidem, pag. 359-362.
    (6) Ibidem, pag. 390.
    (7) Ibidem, pag. 390.

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