Sloterdijk, dopo aver analizzato cristianesimo e comunismo quali impianti psico-politici di immagazzinamento e differimento dei potenziali d’ira ne constata anche il fallimento. E descrive la nostra come un’epoca in cui il thymós, l’insieme delle passioni-contro, è andato incontro ad un’atrofizzazione, che ha rovesciato sulla parte erotico-appropriativa dell’animo tutto l’onere della soddisfazione delle esigenze psichiche degli individui.
In linea con l’apparato (Ge-stell) economico-politico occidentale, con la società nel vizio [1] e del consumo, non si lotta più per il riconoscimento, ma per l’appropriazione. Appropriazione eminentemente materiale, sempre meno spirituale. Divengono così emblematici dello spirito del nostro tempo il karoushi giapponese, ossia la morte da sovraccarico di stress lavorativo, o la sindrome da shopping compulsivo che ha preso sempre più piede negli USA: gli affetti da quest’ultima (soprattutto ragazze della middle-class) sperperano patrimoni (propri e dei familiari) in spese inutili per abiti che poi non indosseranno, che andranno ad accumularsi in mostruosi armadi senza mai essere indossati, frutto della necessità di riempire un vuoto che gli oggetti non riescono a colmare.
Con Heidegger si potrebbe dire che “Il vuoto dell’essere (…) non è mai suscettibile di venir riempito dalla pienezza dell’essente”[2]. Vuoto che non è altro che vuoto di riconoscimento, vuoto di confronto, vuoto di desiderio, svuotamento del luogo in cui le passioni timotiche trovano il loro terreno di confronto per eccellenza: il campo politico.
È il venir meno della possibilità di integrazione in strutture politiche, religiose, in istituzioni (direbbe Gehlen) che riescano ad inserire l’individuo in un contesto propriamente sociale la causa prima del ritrarsi del thymós nella contemporaneità. Anche le esplosioni di ira popolare sono estemporanee: atti amorfi di misocosmia li chiama Sloterdijk: il filosofo di Karlsruhe fa l’esempio delle banlieue parigine. Nel panorama italiano, anch’io mi sentirei di aggiungervi il V-day di Beppe Grillo.
Oggi, la generazione che protesta per la riforma scolastica e universitaria proprio fuori da queste aule è cresciuta guardando film come Manuale d’amore, Tre metri sopra il cielo, Parlami d’amore, Come te nessuno mai. Quella che protestava quarant’anni fa guardando Milano calibro 9, Il boss, Milano spara, Roma a mano armata. La coscienza della violenza penetrava nelle visioni del mondo singole, anche solo attraverso il quotidiano esser-trasposto nella banalità di un film d’intrattenimento. Il confronto politico si tingeva dei colori forti della violenza. Nonostante ciò c’è da dire che confronto, parola chiave del thymós, all’epoca, c’era. Tragico, violento, omicida, sanguinoso, aspramente politico nel senso schmittiano del termine, ma c’era.
Ricordo che Carl Schmitt, nelle sue importanti analisi del concetto di politico, non manca mai di sottolineare che in tale concetto è sempre insita, fin dall’inizio, la possibilità aperta del confronto violento tra le fazioni opposte, la possibilità dell’annientamento fisico dell’avversario. Forse nelle parole di Schmitt lampeggia, di una luce oscura, il futuro di una politica che non voglia essere inglobata dall’impotenza pubblicitario-capitalistica della società dello spettacolo: “In primo luogo tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un senso polemico; essi hanno presente una conflittualità concreta, (…) la possibilità reale della lotta deve essere sempre presente affinché si possa parlare di politica (…) con il termine di nemico anche quello di lotta deve essere qui inteso nel senso di un’originarietà assoluta. Esso non significa concorrenza, non la lotta “puramente spirituale” della discussione, che alla fine ogni uomo in qualche modo compie sempre, poiché in realtà l’intera vita umana è una “lotta” ed ogni uomo un “combattente”. I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica.”[3]
[1] Espressione coniata e usata da Sloterdijk in Sfere III
[2] M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 2006, pag. 62
[3] C. Schmitt, Il concetto di “politico”, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 2005, pag. 113-116
Tag: Heidegger, misocosmia, Schmitt
27 novembre 2008 alle 1:03 am |
confesso di non aver ancora letto i due libri di Sloterdijk, perciò non so ancora come va a finire la storia.
La mia domanda è: davanti ad un’analisi così lucida e spietata della situazione in cui viviamo, cosa può fare il singolo? (per inciso credo che questa sia la domanda che debba guidare qualunque analisi filosofica)
Faccio questa domanda a questo punto del corso perché mi sembra che, per come si sono messe le cose, al singolo, al cittadino, a me, non resti altra scelta che tra queste due opzioni:
-disperdere il mio potenziale d’ira in atti distruttivi (con l’unico vantaggio, a mio avviso, di non avere, a lungo andare, problemi al fegato o allo stomaco – l’ira accumulata può fare brutti scherzi!)
-affidare tale potenziale a banche dell’ira che lo utilizzino a fini di cui in ogni caso non posso disporre
è evidente che nessuna delle due soluzioni può essere considerata soddisfacente. Allora che fare?
concludo l’intervento con i miei complimenti al dottor Lucci per il suo contributo al corso: il confronto con un oratore del calibro del professor De Fiore non era per niente facile, ma mi pare che lui si è difeso più che egregiamente. congratulazioni
Adrian
29 novembre 2008 alle 3:31 PM |
Volevo tornare sulla questione di Vendetta e Giustizia, ricollegandomi ad un commento di Lisa Pedicino risalente a qualche lezione fa.
Ciò che mi sembra di aver riscontrato è che il rapporto fra questi termini, almeno per l’uomo post-storico, è ben più complesso di quanto si possa leggere nelle Eumenidi, nonchè nella vicenda dell’amnistia democratica proposta da Trasibulo; per quanto anche nell’Atene di Lisia si potrebbe riscontrare un ambito di indistinzione, sottolineato dalla mia collega con questi termini:
“…le furie che diventano eumenidi sono il sintomo di una vendetta che diventa giustizia, passando dal piano privato a quello politico, o la giustizia è un perfetto mezzo politico per perpetrare una vendetta privata che altrimenti rimarrebbe insoddisfatta?”.
Se le parole (giunte un po’ in ritardo) di Aristotele sull’uomo “animale politico” mostrano davvero, come io credo, quale fosse l’essenza fondativa della vita di comunità dell’uomo greco, possiamo concludere che ciò che la tragedia di Eschilo mette in scena, ovvero la rinuncia alla vendetta in favore della giustizia amministrata nella polis, avesse valenza imperativa e perentoria per individui che facevano esperienza originaria di sé stessi come di cittadini.
Il discorso, però, cambia radicalmente se ci spostiamo nello spazio, e, soprattutto, nel tempo (addirittura uscendo dalla storia). Mi pare che il termine “rimosso” della vendetta personale, con l’avvento della post-politica, stia venendo a galla, come scarto non colmabile dalla giustizia. Quest’ultima, riconoscimento formale del torto, colpisce soprattutto il cittadino, che di questi tempi, si sa, non si identifica più con l’uomo nella sua dimensione biologica. Il “borghese piccolo piccolo” (vendicatore ma non giustiziere?) è ossessionato invece dalla nuda vita del colpevole, e su di essa si accanisce. Si potrebbe riprendere, forse con qualche forzatura, il dualismo eros– tymos, in cui la dimensione del possesso, del pieno potere sul corpo, ha la meglio su quella giuridica; ciò che accade a Guantanamo ne sarebbe un altro esempio. Ancora: come valutare il fenomeno delle ronde volontarie, e la crescente tentazione a farsi giustizia da soli? In genere, in questi casi ci vanno di mezzo gruppi umani irregolari, formati da homines sacri, referenti di astratti diritti “universali” (formali, appunto) ma forzati a sopravvivere ai margini della civiltà. Si può qui tirare in ballo, con tutte le distinzioni del caso, il saggio di Adorno sull’antisemitismo (par. V): “Mentre la natura che non si è filtrata a puro mezzo attraverso i canali dell’ordine concettuale, lo stridore del gesso sulla lavagna, che perfora i timpani, l’haut gout, che richiama le feci e la putrefazione, il sudore che appare sulla fronte del premuroso; tutto ciò che non si è completamente adeguato o che offende i divieti in cui si deposita il progresso dei secoli, suona agro e suscita una ripugnanza irresistibile”. Quasi che cioè che vi è di organico, nel colpevole – o nel nemico, debba essere epurato, redento.
Un ultimo esempio. Proprio in questi giorni, il povero Castagna accoglie come un sacrosanto atto di giustizia la condanna dei coniugi Romano; eppure, si lascia scappare una dichiarazione che ha quasi la valenza di un sintomo: “Ma l’aspetto forse piu’ difficile da sopportare – ha aggiunto – e’ stato vedere l’atteggiamento di Rosa e Olindo che si sono sempre comportati come se fossero li’ per caso e alla fine hanno provato anche a parlare di condoglianze”. La legge non ha il potere di intervenire così a fondo nella psiche degli assassini, fino a sottrarli alla loro idiosincrasia.