Aguirre, der Zorn Gottes

Sia pure in ordine alfabetico, il primo dei 100 all-time movies – secondo “Time” – è un film tedesco: Aguirre, der Zorn Gottes. In italiano uscì col titolo Aguirre, furore di Dio.
Il film del 1972 di Werner Herzog è un Apocalypse now alla tedesca (così viene definito nella classifica dei Top Cult Movies; peraltro, lo stesso Coppola riconosce il proprio debito nei confronti di Aguirre), prototipo della particolarissima relazione e collaborazione tra il regista Herzog ed il suo attore-feticcio, Klaus Kinski, con cui girerà altri cinque film ed al quale dedicherà uno splendido documentario, in morte di Kinski.

Kinski/Aguirre

Kinski/Aguirre

Il film trae spunto da un fatto vero, dall’epopea tragica di un avventuriero basco, Lope de Aguirre e dalla sua spedizione in America Latina. Nel dicembre del 1560 (come nella reale vicenda di Lope de Aguirre) una spedizione di conquistadores, guidati da Gonzalo Pizarro, si apre faticosamente la strada nella foresta amazzonica alla ricerca del mitico Eldorado. L’ultimo giorno dell’anno il gruppo è bloccato nella giungla, ormai a corto di viveri. Pizarro decide di mandare i suoi 40 migliori uomini a discendere il fiume, per cercare viveri e per trovare la posizione dell’Eldorado. Della spedizione, guidata da Don Pedro de Ursúa, fa parte tra gli altri Lope de Aguirre.
Tre zattere partono dunque il 4 gennaio. Dopo due giorni riescono ad accostare alla riva, ma una viene bloccata da un gorgo sull’altro lato del fiume. Durante la notte, i suoi occupanti vengono uccisi dagli indios. Gli uomini si rendono conto di essere circondati e la notte successiva il fiume, gonfiandosi, trascina via le zattere.
Ursúa decide di tornare da Pizarro via terra, ma Aguirre si ribella; Ursúa viene ferito e imprigionato, mentre Aguirre fa eleggere nuovo imperatore Don Fernando de Guzman, assumendo egli stesso il rango di comandante. Viene costruita una nuova grande zattera e il 12 gennaio riparte la navigazione: la mèta è l’Eldorado.
Il nemico resta sempre invisibile nella giungla. Solo due indios si avvicinano con una canoa alla zattera, credendo che gli spagnoli siano i “figli del sole” annunciati da una profezia. Il frate offre loro una Bibbia, dicendo che contiene la parola di Dio. Ma l’indio non capisce, risponde che il libro è un oggetto, che non parla, il che fa infuriare gli spagnoli e i due vengono uccisi.
Il viaggio continua, nonostante gli attacchi invisibili che decimano i soldati. L’imperatore viene trovato morto e Aguirre ne approfitta per liberarsi anche di Ursúa. Il Comandante ormai dà chiari segni di squilibrio mentale. Ed è allora che urla, sovrastando il frastuono delle rapide del fiume: « Sono il furore di Dio, la terra che calpesto mi vede e trema ».
Ormai non c’è più cibo, tutti hanno la febbre e iniziano ad avere allucinazioni. Uno a uno tutti gli uomini vengono uccisi dalle lance e dalle frecce degli indios. In ultimo, la zattera viene invasa dalle scimmie. Aguirre, unico sopravvissuto, è ormai completamente folle.

Come i tre cavalli del Fedro, tre zattere scendono il fiume. E come in Platone, il problema insorge quando il cavallo nero prende il controllo della biga, destituendo di autorità l’auriga (nel film, il Vescovo). Come nella visione kantiana, l’isola della ragione è circondata da flutti impetuosi che la minacciano ad ogni onda. Come in Platone, se l’auriga si lascia trasportare dall’impeto del cavallo nero si precipita verso il basso, così qui la spedizione naufraga, piegata dal furore di Aguirre: è lui il cavallo nero, l’incarnazione della menis, del desiderio smodato, della volontà di potenza e di gloria. Davanti ad Aguirre, alla fine, non resistono né le potestà dell’Imperatore autentico, né di quello da lui stesso creato, né della Chiesa. E lui stesso si proclama braccio di Dio, anzi: è lui l’ira di Dio.

Qualcuno ricorderà una pagina tra le più belle di Beppe Fenoglio, in quella rarefatta sorta di prologo in cielo di Una questione privata, nelle prime pagine del romanzo insomma, in cui il protagonista – il giovane partigiano Milton – scrive alla ragazza di cui è perdutamente innamorato che è splendida. Lei gliene chiede ragione – chiedere ragione di una passione, apparentemente un ossimoro. E lui di rimando scava ancor più l’abisso: tu non sei splendida. Tu sei lo splendore. Beata la ragazza che può sentirsi dire simili dichiarazioni d’amore [1].
Qui è la stessa cosa. Aguirre non è furioso – come Achille che fa scempio tra i Troiani. Aguirre è la furia. Aguirre è il braccio furioso di Dio, il furore di Dio, e come tale non ha misura, anzi: stando alla sceneggiatura originale dove si definisce Zorn questo sentimento, lui è l’ira di Dio, e l’ira divina è smisurata.
Aguirre/Herzog sceglie di rappresentare questo sentimento di Dio tra i diversi possibili: secondo la tradizione cristiana, alla quale il nostro mondo occidentale è più abituato, Dio è innanzitutto amore, non ira. Ma tra le passioni del Dio dei tre grandi monoteismi l’ira non è certo un sentimento secondario.

 


[1] «La prossima lettera come la comincerai? – aveva proseguito lei. – Questa cominciava con Fulvia splendore. Davvero sono splendida?» «No, non sei splendida». «Ah, non lo sono?»  «Sei tutto lo splendore […] Non c’era splendore prima di te», Beppe Fenoglio (1960), Una questione privata, prima ed. Nuovi Coralli, Einaudi, Torino 1986, pag. 6.

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