Dispersione dell’ira nell’era di mezzo

Jean-Paul Marat

Jean-Paul Marat

“Né in cielo né in terra si è capaci di dare più inizio a qualcosa di giusto con la ‘giusta rabbia del popolo'”. Il riferimento a Jean Paul Marat apre il capitolo di Ira e tempo nel quale Peter Sloterdijk illustra la dispersione dell’ira nell’era di mezzo, la nostra. La rabbia cui si riferiva uno dei grandi della Rivoluzione dell’89 è grosso modo la stessa che abbiamo incontrato all’inizio di questo percorso, descritta da Pasolini nel film del 1963. Non era ancora iniziata infatti questa era in cui “sembra che l’ira non voglia più imparare”, incapace di ritrovare “la via del senno, mentre il senno non trova più lei”. Un’era in cui, insomma, l’indignazione non sa più produrre nessuna idea del mondo. E in cui molti degli indignati di un tempo hanno smesso di indignarsi, o ritengono di farlo in forme assai diverse; tanti agenti dell’impazienza estremistica di venti o trenta anni fa sono passati ad ingrossare le fila del centro, “il più informe dei mostri” lo definisce Sloterdijk [1]. E così troviamo ad esempio Paolo Mieli, ex Potere Operaio, a dirigere il “Corriere della Sera”; Paolo Liguori, direttore di un telegiornale Mediaset; Fabrizio Cicchitto, leader giovanile della corrente lombardiana del PSI negli anni Settanta, capogruppo alla Camera del Popolo delle Libertà. paolomieli

Con una botta di pessimismo, Sloterdijk arriva a sostenere allora che “nell’emisfero occidentale, la radicalità esiste ormai solo come atteggiamento estetico, forse come habitus filosofico d’importanza, non più come stile politico”. Oggi sembra si debba essere disincantati, convinti che il futuro ci sia già stato e che sia impossibile un suo ritorno, e men che meno un nuovo futuro: “Su di un fronte ampio di sono voltate le spalle all’intelligenza della critica, per votare di nuovo per il primato della religione. Ogni giorno la desecolarizzazione guadagna terreno, il bisogno di illusioni utili alla vita ha battuto la verità”[1].
Ciò segna in larga scala quel distacco dal primato della timotica, ancora attuale al tempo degli empiti rivoluzionari e socialisti, a vantaggio di un’erotizzazione senza confini, di una ri-privatizzazione delle illusioni. Se il passato timotico aveva visto il predominio assiologico dei valori combattenti, oggi – nella sfera avanzata del consumo – amare, desiderare e godere diventano il primo dovere. Cadono i precetti di astinenza e si propongono tre nuovi comandamenti morali:

  • – I, desidera e godi qualunque cosa ti sia indicata come bene degno di desiderio dagli altri che ne godono – con il che i media assurgono ad un potere crescente;
  • – II, non fare mistero del tuo desiderare e godere;
  • – III, non attribuire ad altri se non a te gli eventuali insuccessi nella competizione per l’accesso a oggetti del desiderio ed ai privilegi del godere[2].

Tuttavia, i sentimenti timotici permangono. Ed a volte si esasperano, se non si riesce ad essere felici attraverso l’erotizzazione del proprio orizzonte di attesa. Se vivo in una banlieu di Marsiglia od in una bidonville di Lagos o di Messico, al centro di un universo multicentrico che ha smarrito la periferia, surclassato dalle proposte del lusso e dell’erotica, come sposso sfogare la mia frustrazione per non avere ciò che tutti mi dicono mi spetti?
Il latore d’ira contemporaneo non ha scenari che lo orientino, non ha porte Scee o mura sotto le quali dirigersi per far scempio di nemici – anzi, a ben vedere, non sa neppure chi sono i suoi nemici. E non ha e neppure narrazioni convincenti che gli assegnino un posto conveniente negli avvenimenti mondiali di cui, comunque, è chiamato a far parte, da ogni angolo: dalla televisione, dalla cartellonistica, da Internet se vi ha accesso. Ed è allora che, “in questa situazione si raccomanda il ritorno alle invenzioni etniche e sub culturali della storia. E se queste non sono disponibili, subentrano al loro posto delle costruzioni locali noi-loro”[3]. In altri termini, “se gli insoddisfatti del postmoderno non possono sfogare le loro affezioni su altre scene, non resta loro che la fuga nella propria immagine riflessa, per come viene fornita dai mass-media”. Dallo spaesamento, la fuga in se stessi. E per trovarvi conforto, l’espulsione dalla propria immagine del sé di ogni aspetto perturbante.


[1] Ivi, pag. 225.
[2] PS, IeT, pag. 242
[3] Ivi, pag. 244.
[1] PS, IeT, pag. 218.

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